Contributi Storiografici 2
- Hrand Nazariantz, Troviero d'Armenia
- Una moneta seicentesca dal Palazzo Vescovile di Bitetto
- Santuario di Sovereto (Terlizzi-Bari). Una croce giovannita
- Celestino V e il «Gran Rifiuto»
Hrand Nazariantz, Troviero d'Armenia

(E. Pappacena, "... Per il nostro tempo", 1959)
Ma il partito dei Giovani Turchi, nato dalla fusione del comitato «Ittihàt ve Terràki» («Unione e Progresso») con la società segreta fondata a Damasco dal generale Mustafa Kemal - più noto, in sèguito, come Atatürk (il «Padre dei Turchi») -, si rivelò non meno feroce del brutale regime hamidiano nella repressione dell'irredentismo armeno. Malgrado, infatti, i suoi proclami liberali, questo movimento nazionalista che, pure, aveva propugnato l'idea di una federazione dei popoli dell'Impero e puntato il dito contro un arcaico ordinamento che ai sangiaccati (articolazioni dell'apparato centrale) affiancava vassalli autonomi ed organismi tribali uniti nel segno della Sharî'a, si macchiò del primo genocidio del XX secolo, quello che ancora oggi, a dispetto delle loro ambizioni europeistiche, i governi turchi si ostinano a negare: il «Metz Jeghèrn», il «Grande Male» del popolo armeno.
Quando, infatti, il rombo dei cannoni della Grande Guerra coprì l'eco delle vicende interne dell'Impero assordando le coscienze dei popoli, l'odio per gli irredentisti armeni, accusati di attività filorussa e considerati una spina nel fianco del vacillante gigante ottomano, dettò al governo dei Giovani Turchi un piano di sistematico annientamento della minoranza armena che, sinistro preludio ad altri e più noti olocausti, vedrà quasi un milione e mezzo di Armeni massacrati o lasciati morire di stenti durante le deportazioni di massa. Il più noto e documentato episodio di resistenza fu quello descritto da Franz Werfel ne "I 40 giorni del Mussa Dagh", un Monte di Mosè dove, tra il 21 luglio e il 12 settembre 1915, circa cinquemila Armeni si arroccarono a difesa della vita e della libertà. Altre drammatiche pagine di resistenza furono scritte ad Urfa (dove un migliaio di Armeni arresisi per i bombardamenti vennero barbaramente trucidati) e, soprattutto, in Cilicia e nella regione di Monche e Sassun; ma, per il resto, si trattò dello sterminio di una popolazione inerme che, a partire dal 24 aprile 1915, quando 2345 notabili armeni di Costantinopoli (tra i quali il poeta Daniel Varujan e il parlamentare Krikor Zohrab) furono deportati in massa verso l'interno dell'Anatolia, conoscerà le efferate operazioni di pulizia etnica della famigerata «Organizzazione speciale» (struttura paramilitare creata dai Giovani Turchi) e dei «tchèté», bande di delinquenti comuni scarcerati, addestrati ed impiegati nelle carneficine.
Tantissimi furono gli Armeni condotti in Siria-Mesopotamia e fatti morire di fame e sete durante la marcia nel deserto di Deir ez-Zor. Quanto agli altri, furono soppressi nei modi più atroci, spesso lapidati per risparmiare le munizioni. «Ho visto con i miei occhi cadaveri di Armeni galleggiare nelle acque dell'Eufrate o giacere abbandonati nelle steppe», scriverà un testimone neutrale dei fatti (1); e, «nei cortili adiacenti e prospicienti ai nostri edifici scolastici», riferirono gli insegnanti tedeschi di Aleppo al Ministero degli Affari Esteri di Germania, «fanciulle, fanciulli e donne, tutti in uno stato di seminudità, giacciono per terra rendendo l'ultimo respiro fra gli altri morenti...» (2). Era l'8 ottobre 1915. Ventiquattro anni dopo, nell'agosto del 1939, Adolf Hitler dirà ai suoi generali: «Chi parla ancora, oggi, dello sterminio degli Armeni?». Il resto - Auschwitz, Mauthausen, Treblinka - è storia nota.
Pulizia etnica, dunque, non efferati episodi di una sanguinosa «guerra civile»; uno spaventoso genocidio che, perpetrato in nome dell'omogeneità etnico-religiosa e della rifondazione su basi nazionalistiche (panturchistico-turaniche) dello Stato turco, condurrà a quella diaspora armena che, riflessa nell'esperienza umana, culturale ed artistica dei tanti intellettuali che trovarono rifugio in Occidente (soprattutto in Francia), portò fuori dai confini patrî ben due milioni di Armeni.
«Tu sapessi, fratello, come è triste /
l'essere soli al mondo, /
soli vivere e senza focolare, /
non sapere ove poggiar la testa / e volgere la propria tristezza /
verso i silenzi di Dio, camminare / stancamente senza posa, ovunque estranei, /
(...) ovunque esiliati, /
sapendo vana ogni ribellione /
e vana ogni preghiera, /
senza pace, senza destino... (...) E cantare nella dignità della propria pena, /
cantare per l'Infinito, cantare per le Stelle, /
senza chiedere agli uomini ascoltazione...» (3).
Sono versi di Hrand Nazariantz, il cantore dell'«Arménie martyre», il «Poeta cosmogonico» che, candidato al premio Nobel nel 1953 per "Il Grande Canto della Cosmica Tragedia" (1946), elevò a dolente metafora esistenziale la tragedia del suo popolo.
Figlio di Diran e di Aznive Merhametgiam, Hrand era nato ad Uskudar, sobborgo di Costantinopoli, l'8 gennaio 1886. Suo padre, membro dell'Assemblea nazionale armena e facoltoso industriale del settore tessile, lo fece studiare nel prestigioso Collegio Bérbérian della capitale turca e, quindi, a Londra e poi a Parigi, dove, nel 1905, Hrand si iscrisse alla Sorbona. Due anni dopo, le cattive condizioni di salute del genitore lo costrinsero a ritornare in patria, dove, prese le redini della fiorente impresa di famiglia, il poeta avviò un'intensa attività di pubblicista e critico letterario dirigendo il giornale "Surhantag" e collaborando a riviste quali "Nor Hossank" (da lui fondata nel 1909 con un dirigente del Partito Social-Democratico Armeno, Karekin Gozikian (4)), "Azatamart", "Hay Grakanutiwn", "Šant'" e "Massis" (5). Quest'ultima, in particolare, ospitò diversi suoi studi e traduzioni di autori stranieri quali Henrik Ibsen, Maksim Gor'kij, Ada Negri e Grazia Deledda, già affermatasi sulla scena internazionale con Elias Portolu (1903). Su "Šant'" e "Hay Grakanutiwn", tra il 1911 e il 1913, Nazariantz volle dar spazio agli esponenti della corrente simbolista italiana: tra loro, il poeta d'estrazione crepuscolare Libero Altomare e, soprattutto, Enrico Cardile e Gian Pietro Lucini, poeti-scrittori con i quali, affratellato dal culto della «misteriosa Iside simbolista» (6), l'Armeno strinse fecondi rapporti di collaborazione e d'amicizia. Fu, però, soprattutto su "Pagin", rivista dalla vita assai breve, che il giovane poeta, autore della raccolta simbolista "I Sogni crocefissi" (1912), rivolse il suo sguardo ad una corrente letteraria che, come ha osservato Mara Filippozzi Zorzi, era stata «già individuata e teorizzata dal Lucini» e «poi rivalutata da Glauco Viazzi che ne precisò maggiormente le caratteristiche proprie riconoscendo nello stesso Lucini il suo capofila» (7).
Lucini, il «fantastico cigno lohengreniano» di cui scrisse Nazariantz ne "I Tre Canti de la Promessa" (1916), nelle "Armonie sinfoniche" (1895) aveva sperimentato il verso libero e si era aperto a quella concezione 'gnostica' del simbolismo che gli farà dire, in "Prose e canzoni amare", che «Il Poeta deve intendere la ragione del verso come i Rosa-Croce l'ordine del cosmos, istituito sopra una grande armonica diffusa nell'immenso equilibrio». Ben dirà il Viazzi che per Lucini il simbolismo fu, prima di ogni altra cosa, «movimento di conoscenza e di azione»: l'autore de "La Gnosi del Melibeo" (alter-ego luciniano) avrebbe infatti scritto ne "Li Alchimisti" che «cerchiam sempre e ancor brucia la sete/ dell'or che l'alambicco non appaga» (8).
Quanto al Cardile, l'enigmatico «Rabbi Eli Drac» dell'«Allocuzione estetico-ermetica» introduttiva a "Il Grande Canto della Cosmica Tragedia", si inserì anch'egli fra gli «artieri dello Inverosimile» intenti a creare «i ponti sinfonici che ci congiungeranno all'Infinito» (9). Collocato dal Viazzi fra i poeti «mistici, orfici, esoterici», fu lui il fedele traduttore di Nazariantz, giacché, scrisse in merito al Bardo dal «tempestoso esilio» e dalla «gloriosa solitudine», «è necessario che un poeta venga tradotto da un altro poeta, da un'anima che accolga le risonanze di quelle armonie come una conca sonora capace di ripercuoterle» (10). Naturalmente, pur fieramente teso ad un personale itinerario di ricerca, seguì, parimenti, le orme dei mostri sacri transalpini che frequentavano i «martedì letterari» di Stéphane Mallarmé coltivando l'idea dell'atto poetico quale magico strumento d'unione fra il mondo reale e l'ideale. Anelando, infatti, alla «conquista dell'Arte Assoluta», Cardile considerava il celebre poeta francese - «il musicista del silenzio, la voce sibillina che insegna l'evocazione delle cose senza nominarle» (11) - un profeta-cantore della Parola e, come Rimbaud, un «alchimista del Verbo».
Di fatto, la punteggiatura libera, lo stravolgimento sintattico-tipografico dei suoi testi rappresentarono, per Mallarmé, un tentativo di elevare la parola a Suono ed il verso a Musica: uno sforzo di trasfigurazione, quindi, della trama disanimata delle cose, tema caro tanto a Villiers de l'Isle-Adam quanto a quel Joséphin Péladan che, fondatore nel 1890 dell'«Ordine cattolico della Rosacroce, del Tempio e del Graal», sosteneva che l'artista è «un cavaliere in armatura, impegnato nella cerca simbolica del Santo Graal», e, con l'intento di «rovinare il realismo, riformare il gusto latino e creare una scuola d'arte idealista», organizzò la serie annuale di mostre pittoriche nota come «Salons de la Rose+Croix» (12).
Cardile, studioso del Péladan ed erede spirituale del Lucini, nell'introduzione all'edizione italiana de "I Sogni crocefissi" (1916) parlò del tentativo di «plasmare l'Idea, di evocare il Sogno, di concretizzare l'Allusione», giacché «ogni ritmo», scrisse, «è per noi un ritorno, un suscitatore; quell'attimo armonico disvela per noi un bagliore del mondo sconosciuto, e perciò lo stato più opportuno alla creazione è l'estasi. Il processo per il quale si sviluppa è un processo magico. La nostra poesia palpita come il cuore del veggente che attende l'apparizione (...). Siamo capaci a suscitare le orchestre per le quali si articola l'Inesprimibile. MUSICA: ecco la nostra tremenda e assoluta capacità» (13). «Dobbiamo costruire un nuovo Tempio», gli aveva scritto Nazariantz il 10 luglio 1912: «la linea dell'edificio si profila già nelle nostre anime, e noi intendiamo il suono degli organi tocchi dalle invisibili mani del Mistero» (14).
Più di quarant'anni dopo, in una rivista diretta a lungo dall'Armeno - "Graal" - Costantino Savonarola avrebbe scritto che non si trattava di evadere dalla realtà attraverso i meandri dell'irrazionale «in cerca di 'polvere astrale'»: «Schemi poetici, concentrazione chimica di simboli, dissolvenze, nebulosità, sono tutti elementi che concorrono a produrre quell'arte ermetica o magica, che non esprime le istanze vive degli uomini, ma quelle di alcuni ultraraffinati...» (15).
Non sorprende che nei cinque canti del poemetto "Lo Specchio"(1920), opera il cui titolo rimanda ad un mito magico ricorrente nella poetica simbolista italiana, Nazariantz avesse definito «intimamente mistico e talvolta follemente pagano» il suo «dramma d'amore e di mistero»; né può stupire che, nel secondo dei "Tre Canti de la Promessa", dedicato al fraterno amico Lucini, scriverà che «abbiamo illuminato il Gesù de le nostre anime, che martirizzava il nostro pensiero con le spine del suo supplizio»:
«... E fra l'Uomo e la Divinità, /
fra la Terra e le Stelle, /
Noi restiamo per sempre sospesi /
dardi spietatamente lanciati /
su l'ultimo e supremo equilibrio de le nostre ali /
(De nos ailes sans plumes, o Stéphane?...) /
fiorite ne l'Amore - e per l'Amore...» (16)
Di fatto, questo Aedo del Verbo che dall'estetica simbolista dei primi anni si sarebbe aperto, come ha osservato Krikor Beledian, ad una «poétique post-symbolique d'ésotérisme incantatoire» (17), si era vigorosamente inserito nel dibattito culturale del suo tempo con una penna che - «più pura della spada», secondo Cardile - «non cessò mai di combattere per la causa santa» della sua Armenia, e, mescolando scespirianamente l'inchiostro alle lacrime (18), aveva saputo trasporre, trasfigurandola, una lacerante vicenda personale nel dramma universale dell'esilio dell'Uomo. La sua opera, scrisse un critico contemporaneo, Cesarino Giardini, «rifugge», infatti, «da un gretto individualismo, assalta la sfinge eternale e, sdegnando le strade su cui zoppicano le filosofie umane con i castelli di carta dei loro sistemi, apre l'ale onnipotenti del canto verso l'armonia immortale dei cieli» (19). «Ogni illuminazione», aveva scritto Nazariantz, va pagata «con una goccia (...) del proprio sangue» (20).
Rifugiatosi nel Consolato italiano per sfuggire alle condanne a morte, nel febbraio del 1913 il Poeta sposò una donna di Casamassima, Maddalena De Cosmis, per abbandonare, infine, il Bosforo e lo «stanco singhiozzo» del suo «gemente azzurro». Nel maggio di quello stesso anno, scrivendo all'amico «Atrušan» (Padre Eremean, del Monastero veneziano di S. Lazzaro), l'Armeno espresse il suo desiderio di stabilirsi definitivamente nella «bella» Italia, che, a suo dire, era il luogo ideale per un poeta: «... avevi ragione quando dicevi che un poeta non può vivere che in Italia». Ospite per quasi dieci lustri del nostro paese, fissò la sua residenza a Bari, «Bianca Città eletta», scrisse, «dal mio dolore errante».
Fu da questa terra di frontiera, sospesa fra Oriente ed Occidente, che il poeta armeno assisté impotente alla tragedia del suo popolo. Inutili si rivelarono le testimonianze degli scampati ai massacri e del pugno di coraggiosi che, denunziando le atrocità che si perpetravano sotto i loro occhi, urlarono il loro sdegno per l'indifferenza delle potenze liberali europee. «Quando si tratta», scrissero gli insegnanti tedeschi di Aleppo, «di migliaia di derelitti, di donne e di bambini infelici, che vengono tratti ad una morte certa per fame, le parole «opportun» e «Kompetenzverträge» non debbono più avere alcun significato» (21).
Il 27 luglio 1939, dalle colonne de "Il Resto del Carlino" Cardile osservò amaramente che «E' inutile continuare a bussare alle porte delle nazioni democratiche, lo hanno ben compreso i pionieri della libera Armenia». Ed è forse per questo che Nazariantz, finito nel mirino dell'O.V.R.A. (la polizia segreta fascista) per le sue «vaghe aspirazioni umanitarie» ed i suoi rapporti di amicizia con «noti esponenti dei vecchi gruppi democratici e sovversivi» (22), nelle "Odi Italiche" aveva avuto accenti filofascisti (23). Di certo, «ex massone» considerato vicino al Regime, in una lettera del 1945 avrebbe scritto che «I grandi veri artisti servono unicamente sé stessi; sono veri esseri liberi; non hanno mai cercato di interpretare o esprimere il loro tempo come una certa stolta critica fascista voleva pretendere» (24). Del resto, in una riservata del 23 gennaio 1929 indirizzata dalla Prefettura di Bari al Ministero dell'Interno, si ribadisce che Nazariantz, «capo del gruppo dei suoi connazionali» residenti nel capoluogo pugliese, era «sottoposto ad oculata vigilanza per contatti ed atteggiamenti non perfettamente chiari» (25).
Sconvolto, ad ogni modo, dal diluvio di sangue che stava annegando la sua martoriata nazione, il poeta diede vita ad un Comitato per la difesa degli Armeni e si prodigò per la fondazione di un attrezzato campo profughi - il villaggio "Nor Arax" di Bari - che, creato nel 1926 ed allestito grazie ai buoni uffici del conte Umberto Zanotti-Bianco (fondatore dell'A.N.I.M.I.) e del ministro Luigi Luttazzi, avrebbe accolto un centinaio di connazionali in fuga dal «regno del Caso» e «del Sangue» su cui «vigila la Follia» (26).
Il "Nor Arax" - padiglioni in legno e cemento ed un edificio in muratura da adibire ad asilo e scuola elementare - vide incubare l'idea di una rivista, "Graal", che, pur con edizioni irregolari e vita breve (le pubblicazioni iniziarono nel 1946), conobbe le prestigiose firme di Albert Schneeberger, Malcolm Maclaren, Maurice Gauchez ed Italo Calvino. Il nome di questo periodico di «arte e pensiero» - palese riferimento al mistico Calice assurto ad emblema della misteriosofia cristiana - fu scelto da Enrico Pappacena, grande orientalista dell'Università di Bari che, intimo amico del Nazariantz, partecipò attivamente alla fondazione della rivista:
«Verso la fine del 1945, un gruppo di amici, presieduto dal poeta armeno Hrand Nazariantz, si riunì nel Villaggio Armeno, Nor Arax, di Bari, per creare una Rivista con finalità altamente spirituale. Io ne suggerii il titolo, che fu unanimamente accettato: Graal, e stesi i seguenti appelli:
"L'amaro linguaggio, con cui generalmente si deplora la decadenza del secolo, l'abiezione delle anime, il materialismo dilagante, nasconde fame di verità e un desiderio di serenità meditativa e operosa; rinvigoritrice e costruttiva.
Graal vuol raccogliere le pagine di quanti, coscienti della necessità dell'ora, sentono la loro responsabilità di fronte ai Fratelli uomini, ed offrire, in una comune elevazione, il meglio della loro Arte e del loro pensiero fecondatore. La Rivista, perciò, contribuendo a creare un'atmosfera di fruttuoso raccoglimento, vuol preparare gli uomini a stabilire fra loro un nuovo Patto di Amore e instaurare quella sincera e fattiva fraternità che è indispensabile presupposto per la creazione di una Civiltà nuova. Tale programma esclude ogni ideologia architettata per sostenere parziali interessi sociali e segrete o palesi passioni individuali; offre però possibilità di collaborazione a scrittori seguaci di qualsiasi dottrina o qualsiasi confessione - maturi o giovani -, purché animati dal sincero proposito di giovare alla formazione di una Superiore Coscienza.
Graal non è quindi l'espressione di una delle tante sette o conventicole, né un circolo chiuso, ma farà di tutto per divenire sempre più una fonte inesauribile di poesia e di fede.
Quasi sei anni più tardi, nella primavera del 1951, dai locali del caffè "Il Sottano" di Bari fu lanciato un nuovo vibrante appello dai trentuno firmatari del "Manifesto Graalico", poeti e scrittori che, uniti nello spirito di "Graal", propugnavano la concezione dell'atto creativo quale frutto di un «cammino di sacrificio e dedizione» e, quindi, di sofferta palingenesi:
«I Graalici identificano la vita del Poeta con la sua Arte e perciò ritengono che un'opera grande e pura non può sorgere che da un'anima grande e pura. Chi crea per l'effimero soggiace all'effimero. Il vero Poeta si distingue perché la sua vita è il migliore dei suoi poemi» (28).
«Apostoli» e «confessori» di «quella grande religione che è la Poesia», questi letterati auspicavano, quindi, un'Arte «estranea all'ambizione e alla speculazione» che, non più «ornamento dello spirito sulla povertà del cuore», sapesse «ferire segretamente i cuori col ferro rovente della Bellezza» ed «offrire agli uomini, che hanno bevuto le amarezze del mondo», «una speranza di Liberazione sopra le rovine» (29).
Stanco, evolianamente 'differenziato', lacerato dall'amara condizione di esule e sospeso nel suo limbo esistenziale fra cielo e terra, Nazariantz aveva perduto qualche anno prima anche l'amico e «fratello» Cardile, morto nella sua Sicilia, a Siracusa, nel 1951. Nel "Testamento di Hur Hayran", l'alter-ego del poeta armeno, così gli si era rivolto:
«Io sparirò una Sera, o Enrico, /
tra il delitto di Nascere e la gioia del Morire /
ma a Te, Rabbi e Mago, legherò l'implacabile /
inconsolabile Consolazione /dell'ultimo secreto del mondo assassinato, /
oltre l'Arte, oltre Dio stesso, /
superata qualsiasi frontiera, /
segnata dal Destino, /
che Ti consacrerà Dio al di là di Dio stesso...» (31)
Quasi una risposta questi commossi versi del Cardile, pubblicati postumi nell'estate del 1959:
«Ti volevo vicino /
per la fine dei Tempi, /
Nazariantz: /
Quale piovra mostruosa /
allunga ora il suo tentacolo dall'Abisso, /
onde afferrare /
il tuo soffice cuore? /
(...) Vagano i nostri Simboli nell'Ombra /
e si disperde /
l'incanto delle nostre parole /
(...) Ma se tu taci, l'altra parola /
da Chi sarà mai raccolta?...»(32).
Il 28 gennaio 1962 la "Gazzetta del Mezzogiorno" pubblicò la notizia della sua morte. Il «mago» che si era innalzato sulla «Santa Scala», l'«Iniziato» che ne "Il Grande Canto della Cosmica Tragedia" aveva alluso alla fraternitas dei Rosacroce, si era definitivamente inginocchiato ai piedi del Signore, e, come i suoi poeti coronati di «rose e sangue», «fieri nell'aurora e miti a sera», gli aveva recato «in votiva offerta» i «fiori sanguinanti» delle sue ferite (34).
Come scrisse in una lettera del 5 aprile 1949 - lettera inedita che, insieme ad altri preziosi manoscritti recentemente rinvenuti in Campania, ci è pervenuta grazie alla squisita sensibilità della Donante -, «Io continuo a soffrire. Forse soffrendo al di là delle nostre forze conquistiamo la saggezza e superiamo il destino. Forse il nostro dolore è la nostra più grande ricchezza, la nostra più pura forza, e solo il peso della croce misura la nostra vera grandezza (...) L'epoca dei dispersi è la nostra e noi dobbiamo lavorare senza riposo nell'incanto del nostro meraviglioso tormento. Noi sappiamo che il dolore non è senza dolcezza, il sacrificio non è senza fecondità. Noi inizieremo gli uomini alla verità del nostro sacrificio. Con la nostra superba fede convertiremo le spine in rose, l'ombra in faville. Pietra su pietra noi ricostruiremo, passo a passo riprenderemo la via delle speranze lontane. Abbiamo un tesoro da custodire, un'idea da santificare, un culto da mantenere».
1 Cfr. "I massacri armeni. Dichiarazioni di testimoni oculari", Failli, Roma 1916, p. 6.
2 Id., pp. 8-9.
4 Cfr. H. Nazariantz, "I Sogni crocefissi", vers. it. di E. Cardile, Premessa del Traduttore, Humanitas, Bari 1916, p. 26.
5 Cfr. K. Beledian, "H. Nazariantz dans la littérature arménienne", in"Hrand Nazariantz fra Oriente e Occidente", «Atti del convegno internazionale di studi - Conversano, 28-29 novembre 1987», Schena Editore, Fasano 1990, pp. 40-43.
6 Cfr. H. Nazariantz, "I Sogni crocefissi", cit., p. 10.
7 Cfr. M. Filippozzi Zorzi, "L'attività poetica del Nazariantz in Italia", in "Hrand Nazariantz fra Oriente e Occidente", cit., p. 65.
9 Cfr. H. Nazariantz, "I Sogni crocefissi", cit., p. 12.
10 Id, pp. 15-17.
11 Id., p. 22.
12 Amico del dott. Gérard Encausse - quel «Papus» che, confidente dello zar Nicola e della zarina Alessandria di Russia, nel 1888 aveva fondato con Péladan e Stanislas De Guaïta l'«Ordre Kabbalistic de la Rose-Croix» -, l'ideatore dei «Salons de la Rose+Croix» nel 1889 aveva dato vita, con Encausse, De Guaïta e Villiers de l'Isle-Adam, alla rivista "L'Initiation".
13 Cfr. H. Nazariantz, "I Sogni crocefissi", cit., p. 13.
14 Id., p. 21.
15 "Graal", V, 1 (1956).
16 Cfr. H. Nazariantz, "I Tre Canti de la Promessa", ne "I Sogni crocefissi", cit., pp. 108-109. 17 Cfr. K. Beledian, "H. Nazariantz dans la littérature arménienne", cit., p. 40. 18 Un'immagine, questa, richiamata dal critico e scrittore armeno Enovk' Armene (1883-1968), che, parlando dell'«affannosa ricerca» del Nazariantz, scrisse che gli ricordava «l'eroe di Byron arso dalla sua febbre d'infinito, ma singhiozzante: "L'albero del sapere non è quello della vita, e coloro che più sanno devono piangere più amare lacrime sulla verità fatale"» (cfr. H. Nazariantz, "I Sogni crocefissi", cit., p. 18). 19 «Naziariantz», scrisse ancora il Giardini ne "Il Secolo XX" ("Interpreti dell'anima armena", 1948), «è un ermetico: la bellezza è nella sua poesia, difesa come i tesori delle fiabe, da sette porte di bronzo, sette porte d'argento, sette porte d'oro. D'orientale nella sua lirica non rimangono se non l'opulenza regale dei colori, la ricchezza descrittiva e un certo misticismo che non è né il misticismo dei francesi impersonato nel semplicista Jammes e nell'irriverente Claudel, né il misticismo di Tagore. Tutti i segreti musicali che hanno ossessionato gli ultimi poeti occidentali sono in potere di Hrand Nazariantz»
Paolo Lopane
ARTICOLO GIA' PUBBLICATO DALL'AUTORE IN "VIE DELLA TRADIZIONE", ANNO XXXVII, N. 147 (SETTEMBRE-DICEMBRE 2007)
Una moneta seicentesca dal Palazzo Vescovile di Bitetto
Nel giugno del 1983, in occasione dei lavori di ristrutturazione dell'ex Palazzo Vescovile di Bitetto e, più precisamente, durante un saggio di scavo nel vano a piano terra prospiciente Piazza del Popolo, l'allora direttore dei lavori, l'ing. Vincenzo Frascolla, rinvenne un'antica moneta che, prontamente consegnata alla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Puglia, presentava su una delle facce una croce centrale inquartata con quattro piccole croci inserite nei bracci e, sull'altra, un'effige con monogramma MC. La moneta, come si legge nel verbale di consegna e confermò in séguito Frascolla in un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 19 luglio 1985, era stata trovata su una risega di fondazione, e bene ipotizzò l'ingegnere che, «probabilmente», era stata lì collocata «a testimoniare la datazione delle fondazioni». Quando, infatti, nella primavera del 2010, ho rintracciato il reperto per poterne individuare sul piano storico la provenienza e la data di coniazione, la riproduzione digitale, consegnatami dopo una lunga ricerca dalla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Puglia di Bari, ha consentito di identificare la moneta come un grano di re Filippo IV di Spagna (1621-1665), coniato fra il 1622 ed il 1624, allorché zecchiere del Regno era Michele Cavo.
Note
1. Le lettere MC altro non costituivano, infatti, che le iniziali del nome dello zecchiere, Michele Cavo. Mi sono avvalso della qualificata consulenza del prof. Giuseppe Colucci, presidente del Circolo Numismatico Pugliese della Società di Storia Patria sez. Puglia, a cui vanno i miei ringraziamenti (riferimento bibliografico: Pannuti-Riccio, 55-A).
2. R. Iacovielli, Cronologia de' vescovi bitettesi, edizione manoscritta a cura di P. Giuseppe Maria dei PP. RR., 1835, Tomo I, Parte II, pp. 76-77, Biblioteca Comunale di Bitetto.
Paolo Lopane
Di seguito una foto della moneta e delle immagini rappresentative lo stato di abbandono del Palazzo Vescovile: l'ingresso murato, la muta fontanella e la rigogliosa vegetazione infestante il muro su via del Rovescio. (Foto di T. Magrino)

Santuario di Sovereto (Terlizzi-Bari). Una croce giovannita.

Di recente, accurati lavori di pulizia condotti sulla lastra tombale di fra' Raimondo di Bolera, precettore della domus di S. Maria di Sovereto, hanno restituito al suo nitore una croce di foggia ottagonale che, richiamo alle Otto Beatitudini dell'evangelico Discorsodella Montagna (Mt 5, 3-10), rafforza la ragionevole certezza che il «religiosus vir frater Raymundus de Bolera»di cui parlava un documento (oggi scomparso) menzionato da D. Pasquale De Giacò (1), documento in base al quale nel 1297 il precettore aveva ratificato l'atto con cui nel 1219 fra' Trasmondo, «precettore e maestro della chiesa di S. Maria di Soverito», aveva acquistato «dalle monache di S. Maria a Mare di Barletta un comprensorio di terre» nel tenimento di Terlizzi, appartenesse all'Ordine monastico-cavalleresco di S. Giovanni di Gerusalemme.
Del resto, la preziosa charta del 16 dicembre 1309 (2), charta in cui si legge che un «frater Poncius de Podio», «preceptor sancte Marie de Severito», aveva in quell'anno rivendicato beni dell'Ospedale indebitamente tenuti dal priore di S. Martino di Molfetta, attesta a chiare lettere che l'Ordine che gestì per secoli ladomus,a vocazione agricola e, insieme, ospedaliera, fu, appunto, quello fondato dal Beato Gerardo e militarizzato sotto la guida di fra' Raimondo di Puy. Ancora nel 1475, come si evince da una lapide affissa sul portale dell'ingresso monumentale dell'atrio del santuario, la domus era retta da un precettore giovannita. Ciò non esclude, naturalmente, che questa fondazione monastico-cavalleresca, che, come ricordava il De Giacò, ospitava «due conventini separati», uno maschile, l'altro femminile, destinati alla cura dei pellegrini che «per lo lungo viaggio o si ammalavano, o stanchi avevano bisogno di riposo», potesse essere appartenuta nel XII secolo a quell'Ordine dei Cavalieri del Tempio la cui Regula,approvata nel Concilio di Troyes, all'art. LVI si limitava a raccomandare di non ampliare il numero delle sorores, evidentemente presenti sin dai primi anni della sua istituzione.
Ad ogni modo, la croce finalmente rievidenziata, che precede l'iscrizione relativa all'identità del precettore - «Hic iacet f(rate)r Ramundus de Bolera preceptor olim domus Sancte Marie de Suberito...» -, viene ad affiancare quella che, di tipo parimenti patente e di foggia anch'essa ottagonale, appare sulmantello del de Bolera, a ricordarci le Otto Beatitudini e, nel contempo, il sacrificio che questi monaci-combattenti - uomini che rinunciavano a tutto, alle gioie del mondo come alla quiete dei chiostri - seppero affrontare ad Hattin come a S. Giovanni d'Acri, a Rodi come a Malta, dove, resistendo alle soverchianti forze del sultano Solimano il Magnifico, nell'estate del 1565 avevano concorso a salvare la Cristianità dal tentativo ottomano di accerchiamento dal Sud.
Particolare croce giovannita, foto prof. Cosma Cafueri docente di Fotografia
1 - Cfr. P. De Giacò, Il santuario di Soverito in Terlizzi, ossia notizie storiche e cronologiche riguardanti la invenzione della miracolosa immagine di Maria SS. di Soverito, Bari 1872, p. 30.
2 - Cfr. CDB, Le Carte di Molfetta (1076-1309), a cura di F. Carabellese, Bari 1912, vol. VII, doc. n. 170, p. 222.
Paolo Lopane
Celestino V e il «Gran Rifiuto»
Deponendo nel processo di canonizzazione di Pietro del Morrone - il pio eremita della Maiella che, nel 1294, venne elevato al soglio di San Pietro con il nome di Celestino V - fra' Bartolomeo da Trasacco, uno dei discepoli a lui più fedeli, dichiarò che le sue vesti erano nodosi cilici di peli gravati da pesanti catene che ne martoriavano le carni. Soleva cibarsi - aggiunse - di pezzi di pane raccattati d'estate, per lo più offerti in elemosina, pezzi che faceva seccare al sole per cibarsene d'inverno quando la neve avrebbe impedito di raccoglierne. Diveniva così duro, quel pane, che bisognava romperlo con il martello; e poiché, nel farlo, si frantumava tutto e ne uscivano ragni e vermi, doveva scuoterlo prima di mangiarlo.
Paolo Lopane
"TORRE DELLE STELLE". ANTICA SIMBOLOGIA CRISTIANA NELLA CAMPAGNA MOLESE.

Il prof. Paolo Lopane, esperto in storia medievale, fornisce ai lettori di "Mola Libera" un contributo fondamentale per la comprensione dell'importante ritrovamento in agro di Mola del manufatto rurale, con chiari segni di epoca pre-angioina, già portato alla ribalta dal nostro giornale. E' importante che la Soprintendenza di Bari dedichi ogni attenzione alla scoperta, evitando che la costruzione venga distrutta alla stregua di quanto accadde, dopo il 1969, con il tempietto di San Materno, contenente analoga simbologia. Un appello va, ovviamente, anche al Sindaco di Mola affinchè si prodighi per sensibilizzare la Soprintendenza e gli studiosi locali all'approfondimento: le radici della nostra Storia potrebbero trovare nuove e importanti chiavi di lettura nella "Torre delle Stelle".
di Paolo Lopane
Il recente ritrovamento in agro di Mola del manufatto rurale suggestivamente denominato «Torre delle Stelle», prontamente segnalata alla competente Soprintendenza dal professor Vito Didonna e dal dottor Andrea Giorgio Laterza, merita certamente l'attenzione dello storico.
Ad un occhio disattento potrebbe apparire come una delle tante torrette di campagna adibite ab origine a rifugio o deposito agricolo, ma, al di là dell'utilizzo che nel corso del tempo ne sia stato fatto, la costruzione, ricoperta da incisioni di diversa fattura la cui grammatica figurativa, di carattere religioso, insiste sul simbolismo cristiano della stella, deve aver avuto una funzione (se non pure una destinazione) sacrale.
La «torre» presenta, del resto, manifeste analogie con un altro manufatto scoperto nel 1969 in agro di Mola (località San Materno) dal dottor Sebastiano Tagarelli, che in un saggio sulla vicina necropoli di Azetium, pubblicato nel giugno di quello stesso anno, lasciò un'accurata descrizione di questo sacrale monumento di forma circolare con cupola tronco-conica che venne poi sciaguratamente abbattuto.

Il Tagarelli non esitò a parlare di «costruzione paleocristiana» e, quindi, di «camera sepolcrale», con particolare riferimento ad una lastra sormontante l'ingresso del monumento che, inquadrata in una suggestiva cornice di stelle, recava incisa la scena della Deposizione di Cristo. Le figure stilizzate del «Cristo deposto», della Vergine, di san Giovanni e della Maddalena, scolpite ai piedi della Croce, non possono stilisticamente non richiamare le incisioni di figure a sfondo religioso che campeggiano su una lastra calcarea incassata sul frontale della «Torre delle Stelle», dove si vedono chiaramente il profilo di una figura femminile coronata - con ogni probabilità la Vergine con il capo coronato di stelle -, l'immagine di un teschio ed otto sagome presumibilmente maschili.
Lo stile delle incisioni ed i contenuti iconografici delle lastre, con il palese riferimento alla vittoria spirituale sulla morte (il sepolcro di Cristo, il teschio, la Donna «vestita di sole» dell'Apocalisse) fanno pensare che in fase di costruzione (o di ricostruzione) della «torre» sia stato utilizzato materiale lapideo proveniente dalla necropoli dell'antica Azetium, la cui area continuò ad essere abitata anche in epoca romana ed ancora nell'Età di Mezzo fu presumibilmente attraversata dai numerosi «viandanti di Dio» che, diretti ai porti d'imbarco per la Terrasanta, percorrevano il tratto litoraneo dell'Appia Traiana o le diramazioni del ramo subcostiero di quest'antica strada che, biforcandosi a Bitonto, conduceva ad Egnatia attraversando le località di Caelia (l'odierna Ceglie del Campo), Azetium (a nord-est di Rutigliano) e Norba (l'attuale Conversano).

La parte centrale e superiore della costruzione rurale rinvenuta nel maggio 2020 in agro di Mola. Si nota la perfetta analogia con le figure sacre stilizzate già presenti nel tempietto di San Materno, andato distrutto successivamente alla segnalazione del dott. Sebastiano Tagarelli, studioso nojano, nel 1969.
Quanto alle numerose stelle che decorano la «torre» - a cominciare da quella a cinque punte incisa sul pinnacolo sormontante il frontale -, testimoniano di una remota tradizione artistica che già in epoca paleocristiana, con riferimento ai passi biblici in cui il simbolismo della luce ricorre in chiave messianica, elevò la lux Christi a cifra stessa dell'epifania del Redentore.

Le stelle scolpite nei blocchi di pietra della costruzione rurale rinvenuta in agro di Mola sono numerose e con un numero di raggi variabile



Il Cristo-Lógos - «Sol salutis occasum nesciens» («Sole di salvezza che non conosce tramonto») - fu infatti raffigurato anche in veste solare: si pensi al mosaico della necropoli sottostante la basilica romana di San Pietro, dove Cristo è presentato con gli attributi di Apollo, la quadriga e i cavalli; ed è in tal senso significativa la leggenda secondo la quale Costantino il Grande fece usare schegge e chiodi della Vera Croce per far incorniciare una statua di Apollo e creare sul suo capo una corona di raggi.
Risoluto ad evitare lo sfaldamento dell'Impero, Costantino aveva un evidente interesse a saldare il cristianesimo ai culti eliaci preesistenti. Fu lui ad insistere perché il «Dies Natalis», la ricorrenza della nascita del Salvatore, fosse spostato al 25 dicembre, giorno che, nel culto persiano di Mithra come in quello siriaco del Sol Invictus, coincideva con la sacrale rinascita del Sole nella settimana del solstizio invernale.
Ma, qualunque cosa fosse davvero accaduta nell'imminenza della battaglia di Ponte Milvio, quando, secondo la tradizione, Costantino fece dipingere il monogramma di Cristo (le lettere greche Chi e Rho) sugli scudi dei suoi legionari a seguito della visione di una croce luminosa con la scritta «in hoc signo vinces», l'antico monogramma del Cristo, raffigurato in un duplice o triplice cerchio, continuò a rappresentare l'equivalente della 'ruota solare', eliaco simbolo associato all'immagine del «Kronocrator» (Cristo Signore del Tempo) e quindi scandito dalla croce assiale.
Polisemico come ogni simbolo, nella variante assunta nella tradizione irlandese il chrismon rinviò altresì all'idea delle cicliche età del mondo, con il Cristo-Sole collocato al centro del progetto escatologico divino. Idee, queste, che si ritroveranno nella «Croce ciclica» di Hendaye (Basses-Pyrénées) come nel ciclo di affreschi della chiesa templare di Montsaunès (Haute-Garonne), dove, come ricorda lo storico dell'arte Gaetano Curzi, si ripropone «il tradizionale accostamento, sia formale che semantico, del chrismon ai corpi celesti, secondo un'assimilazione di consolidata tradizione, basata sui passi biblici che identificano Cristo come 'vera stella'».
Analogamente, nella grammatica figurativa della chiesa templare di San Bevignate, a Perugia, si rileva una «sequenza di allegorie cristologiche» che «dalla croce del supplizio» va «al Cristo-luce» e, quindi, «all'assimilazione di Cristo come 'vera stella'».
Ma, per restare in terra di Puglia, non si può sottacere quanto affiora nei quattrocenteschi affreschi del vano attualmente adibito a sacrestia della chiesa ospitaliera di Santa Maria di Sovereto (presso Terlizzi), dove sotto una volta disseminata di stelle, campeggia un sole raggiante accanto ad una tradizionale croce greca, a una vistosa stella ad otto punte e a diversi altri simboli tradizionali che, come nella Cripta del Crocefisso di Ugento - palinsesto di culture il cui quadro d'assieme racchiude una stupefacente varietà di rotae e (di nuovo) di stelle - bene esprime la lettura olistica che l'uomo del Medioevo (più in generale, delle civiltà tradizionali) faceva attraverso la «signatura rerum» del mondo e delle sue creature, cifra e specchio di verità spirituali e, quindi, dei divini misteri.

Cripta del Crocifisso di Ugento, la volta con stelle a otto punte e sei punte
Non sbaglia quindi Maria Stella Calò Mariani, in uno studio sull'insediamento teutonico di Torre Alemanna (presso Cerignola), nel rilevare come la stella clipeata a cinque punte che funge da chiave di volta dei quattro costoloni che si dipartono dai capitelli a crochet sormontanti le colonnine di pietra del vano a piano terra del torrione, altro non rappresenti che «il pentagramma di memoria pitagorica», «emblema del microcosmo» che nella mistica cristiana assurse a simbolo delle cinque piaghe di Cristo e della salvifica «Stella del mattino»; né sbaglia nel riconoscere il medesimo simbolo accanto alla serie di scudi cavallereschi graffiti sulla superficie degli affreschi di San Michele Arcangelo e della Vergine Odegitria nella chiesa rupestre di Ognissanti sul Gargano.
Di fatto, lungo il cammino pellegrinale denominato 'Scannamugliera', che sulle pendici di Monte Sant'Angelo s'inerpica fino alla grotta d'Ognissanti, si nota un altro suggestivo simbolo della tradizione eliaca: una croce greca inscritta in un cerchio, croce che sul piano figurativo s'apparenta a quella scolpita in un blocco di pietra sul muro perimetrale opposto alla facciata principale della «Torre delle Stelle» e, per molti versi, alla croce inscritta in un cerchio che campeggiava sul blocco centrale di chiusura della porta del monumento scoperto e poi distrutto in località San Materno.

La croce greca inscritta in un cerchio, scolpita in un blocco di pietra sul muro perimetrale della "Chiesa delle Stelle" di Mola
Ce n'è abbastanza, dunque, per comprendere il valore storico di un manufatto - la molese «Torre delle Stelle» - che allo stato attuale della ricerca non è ancora possibile collocare entro precise coordinate temporali ma che testimonia comunque di una remota tradizione artistica che nella mistica cristiana ha trovato, infine, esito e compimento.
Un luogo, dunque, ricco di storia; un luogo dello spirito che testimonia del naturale ruolo della Puglia quale ponte e terra di accoglienza, veicolo di scambi e sincretismi culturali le cui mirabili tracce, scolpite nella pietra, continuano a sfidare i secoli nelle facciate dei suoi templi.
Mi auguro, quindi, che la «Torre delle Stelle» venga preservata dalle incurie del tempo non meno che dalla vandalizzazione di mani sacrileghe: affinché lo scempio compiutosi a San Materno non abbia a ripetersi ancora.
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