Recensioni

La donna esclusa dal sacro: il lungo oblio patriarcale e la sfida di una nuova spiritualità
Globalist.it 14 maggio 2025

Nel saggio *La donna e il sacro in Occidente*, Paolo Lopane ricostruisce la rimozione del Femminile dalle religioni e dalla storia europea.

In un tempo in cui si avverte un forte senso di smarrimento, di fronte al dramma quotidiano dei femminicidi e, più in generale, di una crisi delle istanze femministe che avevano portato ad un riconoscimento dei diritti delle donne a partire dagli anni settanta del secolo scorso, appare quanto mai interessante la lettura del ponderoso saggio di Paolo Lopane, "La donna e il sacro in Occidente", edito dalla Jouvence di Sesto San Giovanni.

La tesi di fondo di Lopane, esplicitata nelle note di copertina, è che la civiltà bellicista e patriarcale diffusasi in Occidente dalla seconda metà dell'Età del Rame introdusse quel sistema sociale che, marginalizzando l'elemento non-guerriero, ovvero la donna, ne cancellò il primato religioso e ne sancì l'esclusione dalla Storia. L'autore, storico, giurista e insegnante barese, ci conduce in un suggestivo viaggio tra mito e storia, ripercorrendo in un'avvincente trama gli sviluppi giuridico-sociali e religiosi dell'incontro-scontro fra culture indomediterranee e indoeuropee. Una storia antica che continua e spiega il millenario androcentrismo delle società europee e la perdurante disparità di genere.
Il saggio parte dall'omaggio a Marija Gimbutas, la celebre archeologa di origini lituane il cui rivoluzionario scavo nella preistoria, frutto di metodologie innovative e di un approccio interdisciplinare, capace di coniugare l'archeologia alla linguistica, all'etnografia storica e alla mitologia comparata, fornì un decisivo contributo alla conoscenza dell'Europa Antica. Il suo nuovo approccio aprì la strada all'archeologia descrittiva, che definì archeomitologia e le permise di stabilire che la civiltà bellicista e patriarcale era stata preceduta da una cultura pacifica ed egualitaria estranea alle gerarchie di genere.
Altri fondamentali studi, come quelli dello svizzero Johan Jakob Bachofen, a cui pure Lopane si rifà, hanno rilevato che in epoca pre-indoeuropea (prima del V millennio a.C.) dall'Asia Minore al vicino Oriente fino al bacino del Mediterraneo, fosse diffusa una visione del sacro che poneva al centro la figura femminile (la Grande Madre, la Dea), espressione di una civiltà matrifocale. Questo potere del femminile era riferito al ciclo della natura e della riproduzione, per cui la dimensione sacra della donna non era limitata alla maternità, ma si estendeva all'intero sistema umano e culturale.
Solo con l'arrivo dei popoli indoeuropei (che giunsero in Europa dalle steppe della Russia tra il 4500 e il 2500 a.C.) il sacro inizia ad assumere forme patriarcali (si pensi al ruolo delle divinità guerriere, come Zeus o i suoi alter ego Giove e Odino).

E nel saggio, Lopane ricostruisce proprio l'incontro-scontro di civiltà che si verificò fra le popolazioni indomediterranee e quelle indoeuropee, in seguito all'invasione degli Yamna, le stirpi semi-nomadi e guerriere che irruppero a partire dal IV millennio a.C., dapprima nella regione danubiana, odierne Moldavia e Ucraina, poi anche nel resto dell'Europa Antica, apportando il proprio sistema androcentrico e bellicista. 
Nella parte centrale del saggio, dedicata a "Religione e società", l'autore analizza invece l'impatto fra le differenti culture nel mondo classico, nelle società germaniche e, più tardi, nell'Europa cristiana medievale, quando la detronizzazione del Femminile sancì la definitiva marginalizzazione sociale della donna, decretandone in pratica l'esclusione dalla storia.
Nell'ultima parte, dedicata alle "Eresie di genere e ordine di ragione", Lopane analizza il fenomeno dell'eresia medievale, sintomatico della manifesta volontà di presenza, di ansie di riscatto e di emancipazione sociale da parte delle donne, una proposta religiosa eversiva, in cui la donna trovò spazi di libertà e di parola. Combattute col ferro e il fuoco, le correnti ereticali condussero al periodo più rivoltante della storia della cristianità moderna, contrassegnata dalla "caccia alle streghe", piccolo genocidio di genere di cui furono corresponsabili, con la Chiesa di Roma, la Chiesa Riformata e i poteri laici. Si trattò di una nube di follia moralista che per oltre tre secoli oscurò le coscienze dell'Occidente.

La donna fu eretta a capro espiatorio delle catastrofi e delle tragedie collettive (la peste nera, la "piccola era glaciale", le devastanti carestie) che dalla metà del Trecento funestarono la cristianità. Ma poiché la Fenice risorge sempre dalle proprie ceneri, nell'era della globalizzazione dell'insipienza, dell'impero del pensiero unico e del monologo di massa, Lopane auspica una visione del sacro che riconosca e valorizzi la figura femminile non solo come madre, ma come portatrice di una spiritualità autonoma e forte. Una nuova sacralità che non escluda la donna, ma che la includa in una dimensione di pari dignità con l'uomo.

Un invito che sembra una sfida molto attuale, con un nuovo Papa alle prese con quella che il suo predecessore Francesco aveva definito "terza guerra mondiale a pezzi".

Michele Cecere

Il principio femminile e il sacro nella storia dell'Occidente secondo Lopane
Barbadillo.it 11 giugno 2025

Il saggio edito da Jouvence è un'opera di ampio respiro intellettuale che affronta la millenaria relazione fra donna e sacralità.

La donna e il sacro in Occidente" di Paolo Lopane, edito da Jouvence nel 2024 nella collana "Fuori orario", è un'opera di ampio respiro intellettuale, che affronta con rigore e immaginazione la millenaria e complessa relazione fra il principio femminile e la dimensione del sacro nel mondo occidentale. Si tratta di un saggio che potremmo definire enciclopedico, denso di riferimenti interdisciplinari, che attraversa un arco cronologico amplissimo — dal Paleolitico fino alla soglia della modernità — e che intreccia storia delle religioni, archeologia, antropologia culturale, filologia, mitologia comparata e studi di genere, senza mai smarrire una coerenza interpretativa solida e riconoscibile.

La narrazione è archeomitologica. Fin dalle prime pagine, Lopane si richiama alla figura di Marija Gimbutas, la celebre archeologa che ha restituito dignità e centralità alle culture preindoeuropee e al culto della Grande Dea, mostrando come alle origini delle civiltà europee si profilassero modelli simbolici fondati su mutualismo, equilibrio con la natura e rispetto per i cicli vitali. L'autore non si limita a riprendere queste tesi, ma le rielabora in chiave critica, intrecciandole con i contributi di studiosi come Mircea Eliade, Erich Neumann, Eva Cantarella, Eliseo Masini, Philip Stooke e Raffaele Pettazzoni, componendo un ordito concettuale di straordinaria complessità.L'assunto da cui muove Lopane è chiaro: la sacralità del femminile non è concetto astratto né astorico, ma prende forma nei ritmi biologici, nella ciclicità lunare, nella fertilità della terra, nella potenza dell'acqua, nei simboli animali. Le "Veneri" paleolitiche, le Dee-Uccello, i serpenti, le spirali, i menhir mammellati, gli uteri litici delle domus de Janas sarde: ogni figura, ogni oggetto, ogni forma è decifrata come segno religioso, come traccia di un'antica consapevolezza simbolica del mondo.Nella seconda parte, il saggio affronta il lungo processo storico che ha portato alla marginalizzazione del principio femminile all'interno delle strutture religiose e sociali occidentali. La subordinazione della donna, la stigmatizzazione della corporeità femminile, la rimozione delle figure sacerdotali femminili sono qui lette come effetti strutturali di una trasformazione simbolica profonda, che ha ridefinito l'accesso al sacro in chiave esclusiva. In questo quadro, non mancano impliciti rimandi critici alle grandi religioni monoteistiche, e in particolare alla tradizione giudaico-cristiana, la cui teologia e liturgia ufficiale hanno raramente concesso uno spazio centrale all'archetipo femminile divino.È proprio su questo punto che si apre una possibile obiezione, o almeno una tensione feconda: se da un lato il cristianesimo ha contribuito nei secoli alla marginalizzazione del sacro femminile, dall'altro ha anche elaborato figure di mediazione — basti pensare al culto mariano — che testimoniano una sopravvivenza simbolica di quel principio. Ma proprio per questo offre al lettore cattolico (o più in generale credente) uno stimolo a ripensare criticamente la tradizione, senza per forza rinnegarla, ma interrogandone i limiti e le omissioni.Lo stile dell'autore è elevato, ma sempre nitido. Lopane affronta con acume i passaggi più intricati del pensiero simbolico, evitando tanto il tecnicismo sterile quanto la banalizzazione divulgativa. Ogni capitolo poggia su una struttura salda, sostenuta da una bibliografia ampia e da un'argomentazione sorretta da dati archeologici, testimonianze testuali e raffronti culturali."La donna e il sacro in Occidente" è un'opera colta e profonda che, in un tempo di disincanto e smarrimento, invita a una riattivazione della memoria simbolica e a una riflessione sulle radici profonde dell'identità occidentale. È un libro che non si limita a informare, ma spinge a meditare: parola dopo parola, simbolo dopo simbolo. Un testo imprescindibile per chiunque voglia interrogare il rapporto tra potere, identità e spiritualità, e affrontare, con spirito critico e mente aperta, anche le zone d'ombra della propria eredità culturale.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     Marino Pagano 

Gimbutas, la donna e il sacro
Corriere del Mezzogiorno 6 maggio 2025

Un grande e importante omaggio, trent'anni dopo la scomparsa, a Marija Gimbutas, prestigiosa archeologa lituana che ha rivoluzionato l'archeologia e non solo, restituendoci fodamentali verità sull'Europa Antica; fra le più importanti, che la civiltà bellicista e patriarcale europea, diffusasi dalla seconda metà dell'Età del Rame, era stata preceduta da una cultura pacifica ed egualitaria estranea alle gerarchie di genere ed incentrata sul culto di una grande Dea identificata con la Natura vivente. Alla figura di Marija Gimbutas e al suo lavoro scientifico, Paolo Lopane, storico e giurista barese, ha dedicato un importante e ben documenato lavoro, La donna e il sacro in Occidente (Jouvence). Il saggio, ricostruendo l'incontro-scontro di civiltà fra Mediterraneo ed Europa documenta la nascita e la prosecuzione di una cultura androcentrica, bellicista e agnatizia. Analizzando anche gli aspetti fra religione e società Lopane restituisce verità storiche alla marginalizzazione della donna. La terza parte dedicata alle Eresie di genere e ordine di ragione, fra "caccia alle streghe", una sorta di "genocidio di genere", a opera di un'isteria collettiva, che non hai smesso di oscurare le diverse culture dell'Occidente.

Giancarlo Visitilli

Relazione introduttiva di Laura Carnevale a "La donna e il sacro in Occidente" di Paolo Lopane

Il ruolo della donna nella storia delle religioni, e in particolare nella storia del cristianesimo, in tempi e modi diversi ha intercettato l'attenzione di un numero crescente di studiose e studiosi, e anche semplicemente di curiose e curiosi, generando correnti di ricerca e tentativi di risposta talora irruenti, spesso di matrice femminista, ma non solo.

Gli studi femministi sull'argomento sono stati inaugurati negli Stati Uniti nell'Ottocento da Elizabeth Cady Stanton[1] e sono attualmente ben rappresentati, su scala nazionale e internazionale, da figure quali Kari Elizabeth Børresen, Carolyn Osiek, Elizabeth Schüssler Fiorenza[2], Judith Lieu, Dinora Corsi, Adriana Destro, Mauro Pesce, Giorgio Otranto, Clementina Mazzucco, Elena Giannarelli, Cettina Militello, Emanuela Prinzivalli, Adriana Valerio, Laura Faranda, Gabriella Zarri, Marina Benedetti, Maria Dell'Isola. (perdonate l'elenco, ma volevo rendere giustizia a queste studiose e a questi studiosi).

Ed è proprio il bisogno continuo di ri-focalizzarsi sul ruolo delle donne nei diversi sistemi religiosi, che ci richiama alla presenza di nodi da sciogliere, nell'esigenza sempre rinnovata di capire e di reinterpretare ciò che è tradito dalle testimonianze documentarie e monumentali, a partire da quelle più antiche.

È evidente che la donna costituisce una realtà estremamente complessa e polisemica dal punto di vista antropologico e psicologico: basti dire che è custode della vita e sorgente della vita di ciascuno [ed è proprio per questo avvertita come possibile minaccia e come fonte di timore dall'uomo, che la percepisce come l'Altro, a tratti il Complementare, a tratti l'Avversario – una realtà di cui ha comunque un ineluttabile bisogno]. Freud la definiva "der schwarze Kontinent"[3] e forse si può affermare che, in qualche misura, la donna sia ancora tale[4]. Eva e Maria, diaboli ianua e porta Christi, è banale ripeterlo, sono davvero i due volti di un'erma bifronte, impensabili l'una senza l'altra – e non soltanto sul piano della storia della salvezza[5].

L'esigenza di riportare la donna al centro viene pienamente intercettata da questo libro di Paolo Lopane, La donna e il sacro in Occidente, pubblicato per i tipi di Jouvence nel 2024.

L'Autore conduce un'indagine critica delle radici storiche e culturali del sacro, mettendo in luce le dinamiche di potere che hanno influenzato la rappresentazione del femminile nella religiosità occidentale, marginalizzando progressivamente le donne.

Egli esplora il ruolo della donna nelle religioni e nelle tradizioni spirituali dell'Occidente, partendo dal Neolitico e focalizzandosi su un'area posta tra gli altopiani iranici e la nostra Europa, tempo e luoghi in cui la centralità della figura femminile risultava esaltata.

Studi cruciali come quelli dello svizzero Johan Jakob Bachofen o della lituana Maria Gimbutas, cui Lopane si rifà con rimarchevole intelligenza critica, hanno messo in luce come in epoca pre-indoeuropea (quindi prima del V millennio a.C.) dall'Asia Minore al Vicino Oriente fino al bacino del Mediterraneo, fosse diffusa una visione del sacro che poneva al centro la figura femminile (la Grande Madre, la Dea), espressione di una civiltà senz'altro matrifocale. Questa centralità e questo potere del femminile erano intrinsecamente legati ad aspetti quali il ciclo della natura e della riproduzione, ragion per cui la dimensione sacra della donna non si limitava alla maternità, ma si estendeva a un ruolo di cura e di equilibrio dell'intero ecosistema umano e culturale.

Scrive Lopane a p. 51: "[…] la donna fu considerata vettore di comunicazione con la Dea sia per le esigenze connesse alla preservazione materiale della vita, sia per finalità soteriologiche associate al culto degli antenati e all'interscambio con le potenze celesti: il sacrificio. Era lei la terrena rappresentazione della Grande Madre. Era lei il cordone ombelicale che univa saldamente la Terra al Cielo e assicurava, con la protezione celeste, il nutrimento e il miracolo delle nascite: la garanzia di continuazione del gruppo".

Solo a partire dall'arrivo dei popoli indoeuropei (che giunsero in Europa dalle steppe della Russia tra il 4500 e il 2500 a.C.) il sacro ha iniziato a costituirsi attraverso una lente patriarcale (basti citare il ruolo cruciale di divinità, significativamente guerriere, come Zeus o i suoi alter ego Giove e Odino). Le diverse ipostasi della Grande Madre, invece, progressivamente si trasformarono "nelle divinità agresti e silvane del mondo indoeuropeizzato che, all'indomani dell'arrivo delle stirpi elleniche che colonizzarono l'Ellade e le coste dell'Anatolia occidentale, assunsero le … fattezze di Gea… di Demetra… di Artemide… di Athena" (pp. 101-102).

La pressoché totale esclusione delle donne dalle pratiche religiose, non solo nel mondo, ma anche in gran parte nel mondo cristiano, ha contribuito a consolidare il dominio maschile nella sfera pubblica, relegando le donne a ruoli di supporto e a una spiritualità "di seconda classe", anche se in alcuni casi esse riuscirono in qualche modo a emergere con la loro autorità (mi riferisco per esempio, nel cristianesimo antico, ai casi attestati di donne presbitere o episcope, o alle profetesse montaniste).

Lopane auspica una visione del sacro che riconosca e valorizzi la figura femminile non solo come madre o simbolo di virtù, ma come portatrice di una spiritualità autonoma e forte. Egli propone di riscoprire una sacralità che non escluda la donna, ma che la includa in una dimensione di pari dignità con l'uomo.

Il libro è distinto in tre parti, i cui capitoli seguono un criterio cronologico e disegnano quella che non esiterei a definire una storia universale sub specie foeminina.

Nella prima parte Lopane si occupa appunto della civiltà neolitica e tardo-neolitica pre-indoeuropea, matrifocale, agricola, sedentaria, egalitaria e pacifica, affrontando il nodo della sua sostituzione con la civiltà indoeuropea, patriarcale, nomadica e pastorale, fondata sull'allevamento del bestiame e sull'uso del cavallo a fini bellici, che confinò la donna nella sfera privata e degradò le neolitiche dee-madri al rango di divinità paredre, di epigone della Dea della Morte o di figure da incubo, il cui ricordo rivivrà nelle favole, nei riti, nei costumi e nella lingua.

La seconda parte verte su aspetti quali la progressiva marginalizzazione dell'elemento femminile nelle società indoeuropee e il conseguente misconoscimento dell'identità delle donne nel mondo greco e romano (la donna era "ambiguo malanno" secondo Euripide e doveva essere pudica, domiseda e lanifica per i Romani). Oggetto d'attenzione è anche il graduale silenziamento della voce delle donne nel mondo cristiano, alle origini del quale - pure - il loro ruolo fu tutt'altro che marginale!

La terza parte concerne fra l'altro, il tema complesso delle eresie medievali, in particolare quella dei valdesi e dei catari, che "offrivano alla donna un campo … di attività più libera e operosa" (p. 553), a cui Lopane ha dedicato anche studi monografici. Viene inoltre affrontata, con sensibilità e intelligenza critica, la storia dell'inquisizione e della caccia alle streghe (e ricordiamo che nei riti del sabba confluiscono, risemantizzati, alcuni aspetti dei rituali dionisiaci delle baccanti e che, d'altra parte, la parola "sabba", secondo Carlo Ginzburg, deriverebbe etimologicamente non da shabbat, ma dal termine ensabatés, cioè valdesi).

Per quel che posso giudicare relativamente alla mia modesta area di specializzazione, la storia del cristianesimo antico, l'Autore esibisce una preparazione sempre rigorosa e una conoscenza precisa della bibliografia di riferimento – che si soffermi sulla figura di Maria la Madre (che ha ereditato uno dei titoli di Diana, Virgo Caelestis), sulla figura diMaria Maddalena, sul Libro di Enoch,sull'Apocrifo di Giovanni, sul vangelo di Marcione, sul montanismo, su Tertulliano, su Origene, su Gregorio Magno o su Massimo di Torino [forse sfumerei soltanto un poco il giudizio su Girolamo, definito a p. 471 "araldo della misoginia ecclesiale"].

Pregevole è la sensibilità di Lopane agli aspetti etimologici della sua ricerca, con particolare attenzione alle radici indoeuropee di alcuni dei vocaboli da lui discussi, nonché agli aspetti genetici legati alle migrazioni indoeuropee tra Europa e Asia (la genetica confermerebbe l'esistenza di una popolazione "proto" indoeuropea già durante il Neolitico, nell'VIII millennio a.C., che si era insediata nella regione anatolico-caucasica e penetrò in Occidente).

Notevolissima è la competenza nell'uso di fonti le più disparate, fra cui spiccano quelle giuridiche, tutte trattate (e non sembri questo un ossimoro!) al contempo con passione e con spirito critico.

Come si può intuire da queste mie parole, il libro di Paolo Lopane è un'autentica miniera, nel senso più pieno della parola. Temi e argomenti, sempre di grande rilievo ed interesse, gemmano gli uni dagli altri, di pagina in pagina, senza soluzione di continuità, coerenti e cogenti, rigorosamente trattati e documentati. Le note, sia di natura bibliografica che di natura esplicativa, sono sempre molto circostanziate. La bibliografia (27 pagine, se ho contato bene!) è assai rilevante e aggiornata.

Il nostro Autore, infine, ha uno stile e un lessico raffinati, e appare talvolta quasi compiaciuto dell'innata eleganza con cui si esprime – un aspetto che, occorre riconoscerlo, rende il volume gradevole da leggere.

Entrare in relazione con questo libro è, dunque, un'esperienza intellettuale che allarga gli orizzonti di chi legge, insegna moltissimo e molto fa riflettere, fino a giungere – talvolta – a togliere quasi il fiato.

Laura Carnevale

Professoressa associata SSD M-STO/07 (Storia del cristianesimo e delle chiese)

Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica

Università degli Studi di Bari Aldo Moro

Co-direttrice "Vetera Christianorum"

Coordinatrice nazionale Progetto FIRB-Futuro in Ricerca 2012-17 "Spazi sacri e percorsi identitari"


[1] E. Cady Stanton (ed.), The Women's Bible, 2 voll., New York 1895-1898 (testo fondamentale collocabile nell'ambito delle lotte per i diritti civili delle donne).

[2] E. Schüssler Fiorenza, In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, tr. it. Torino 1990 (ed. or. New York 1988).

[3] Cfr. S. Freud, Gesammelte Werke chronologish geordnet. Band XIV: Werke aus den Jahren 1925-1931, London 1955, p.241.

[4] Cfr. F. Culdaut, Entre terre et ciel. Chrétiennes aux premiers siècles, in J. Delumeau (a cura di), La religion de ma mère. Le rôle des femmes dans la transmission de la foi, Paris 1992, p.15.

[5] In Marianum 39 (1977), p. 72.73. Cfr. anche D. Hervieu-Léger, Catholicisme, la fin d'un monde, Paris 2003, p. 225: "Dieu se manifeste, si l'on peut dire, dans l'utérus de la femme fécondée" [in Filoramo, La Chiesa e le sfide cit., p. 38]. 

La gnosi nel mito e nella storia

Un interessante saggio di Paolo Lopane analizza il tema dell'origine della conoscenza, tra nucleo spirituale del mondo tardo-medievale e sviluppo del pensiero razionale. Se è vero che l'elaborazione della storia del pensiero è nota agli esperti, è anche vero che esistono ricostruzioni e speculazioni che possono aprire mondi. Pensiero, già: anche quello spirituale, mistico persino. La storia di una particolare fetta del lungo cammino della filosofia, se si vuole anche della teologia (ed in realtà pure di tanti altri campi del sapere, anche pratico e materico), è al centro di un libro di quelli non facilissimi e probabilmente, diciamolo pure, non per tutti.

Un lavoro dall'approccio metodologicamente inappuntabile è, infatti, Metafisica del Centro e deriva delle civiltà. La gnosi nel mito e nella storia, opera densissima di riferimenti storici e culturali, a firma di Paolo Lopane (editrice Novalis), studioso e ricercatore con formazione di giurista ma da anni autore di interessanti libri su alcuni aspetti spinosi a livello storiografico (Templari, Catari), dedicati a frangenti capaci di catturare spesso l'attenzione anche popolare rispetto ad alcuni momenti della storia, specie medievale, ma che invece l'estensore del saggio preferisce ricondurre rigorosamente al senso della ricerca stessa.

Lopane ha anche scritto sul poeta armeno Hrand Nazariantz, legatissimo alla terra di Bari, dove visse (Conversano e Casamassima) e sugli ordini cavallereschi in Puglia. Pubblicazioni, insomma, in cui si studiano con attenzione elementi talvolta al centro di pubblicazioni e ricostruzioni avulse dalle effettive contestualizzazioni storiche. Quel che Lopane accuratamente evita, preferendo la discrezione della ricerca al rumore di un certo sensazionalismo non così rado anche presso certi scrittori di cose storiche, si pensi proprio al caso dei Templari.

La gnosi è invece al centro di quest'ultimo volume dello studioso barese. Argomento davvero ostico, proprio per questo carico di letteratura visionaria e non storica che esiste anche su questo tema. Una bibliografia che Lopane non ignora di certo, che ha letto e coltivato, ma che riesce assolutamente ad eludere e superare ai fini della comprensione neutra dei fatti e dei risvolti dei fatti stessi. Non si contano, invece, i riferimenti ad opere fondamentali della ricerca sulla filosofia e sulla letteratura gnostica, così come importanti sono le note e curatissimo l'apparato paratestuale. Si raggiunge, così, quella terzietà d'approccio che pur non nega la possibilità di una scelta precisa, una preferenza, esplicitata anche polemicamente, senza tuttavia rinunciare alla corposa serietà dell'impianto opzionato dall'autore.

La preferenza va decisamente alla cultura sapienziale gnostica stessa, vista come via alternativa a quella che il pensiero religioso strutturato (di qualsiasi orientamento) ha poi seguito ed inverato. Non è facile sintetizzare cosa la gnosi sia, quando realmente parta la sua genesi, quali epoche e branche del pensiero essa abbia concretamente abbracciato. Soprattutto, in quali misure essa possa indicare quella strada 'alternativa' di cui si diceva: specificatamente, adesso, rispetto alle linee ortodosse e tradizionali della teologia cristiana e cattolica. Proviamo a sintetizzare. Il punto è che la gnosi, di germinazione ellenica, al tempo delle origini del Cristianesimo, indica l'orientamento all'auspicato connubio tra la nascente fede (meglio sarebbe dire 'religione') e la filosofia platonica e neoplatonica. Una linea proseguita poi nei secoli, attraverso anche percorsi iniziatici ed esoterici.

Lo gnosticismo cristiano prettamente storico si diffonde dal II secolo, soprattutto ad Alessandria d'Egitto. La via della conoscenza, per gli gnostici, è personale, non afferisce a strutture ed è il culmine di un cammino finalizzato alla sapienza. Se Roma, Antiochia e Costantinopoli cominciavano a preparare l'humus dottrinale cristiano, Alessandria seguiva questa autonomia di pensiero. Le strade cominciavano a divergere su molti punti di quella che era ancora una teologia in formazione. Il mondo materiale era rifiutato dagli gnostici in quanto ritenuto creato da potenze malvagie: solo nel Dio del Nuovo Testamento c'era la perfezione e la salvezza, grazie alla venuta degli 'eoni' Cristo e Sophia (che altri non sarebbe che lo Spirito Santo). Fuor di espressioni tipiche del lessico gnostico, era questa, più o meno, anche la tesi di Marcione, eretico dei primissimi tempi cristiani.

Lopane segue con profondità tutto questo tracciato, attraverso capitoli che affrontano le molteplici tematiche intrinseche allo gnosticismo: il rapporto tra fede dell'io e religiosità dell'apparato, lo scottante 'scandalo' della resurrezione del corpo di Cristo, le deviazioni o le cattive interpretazioni del messaggio della gnosi. Pagine anche sulle variegate filiazioni di questo filone di pensiero attraverso i secoli, sulle dottrine ereticheggianti che spesso hanno attinto moltissimo dalle suggestioni gnostiche, senza tralasciare - con intenti fortemente critici ma lontani da un certo anticlericalismo ideologico e rancoroso - le persecuzioni dei cristiani cattolici contro le vie iniziatiche.

Molto dettagliato il resoconto dell'esperienza catara, su cui l'autore ha scritto già molto in passato. Lo stesso può ben dirsi per le analisi dei testi degli autori della patristica cristiana che più hanno contribuito all'attenzione critica contro gli gnostici, sic et simpliciter visti come apertamente eretici. Si tratta, come si vede, di storie assai complesse, cui poter anche guardare, magari a nostra volta, con ulteriori criticità. Ci si può, infatti, interrogare sulla validità delle tesi gnostiche - pur fascinose -, senza per questo voler a tutti i costi sposare quelle posizioni indubbiamente talvolta ottuse e liberticide che la storia certifica esser state adoperate contro le teorie della gnosi. Non dimentichiamo anche una qual certa vicinanza a queste tesi anche nell'ambito della storia ecclesiale, addirittura prestigiosa: si vedano i casi dei cardinali Reginald Pole e Giovanni Morone (XVI secolo), entrambi giunti quasi ad un passo dal papato, accusati, ancora recentemente da parte di autori cattolici, di atteggiamenti cripto-gnostici.

E del resto, tanti gli intrecci tra seduzione della gnosi e varie componenti del pensiero storico, orientale ed occidentale: tradizione della cabala, accessi dell'alchimia, la sequela della via ermetica, la stessa diretta magia. Università israeliane, americane, olandesi e francesi stanno da tempo studiando queste contaminazioni. Un crogiuolo di saperi che parte dall'età classica e, attraverso un certo medioevo (nel senso, più che altro, di una particolare idea 'di' medioevo), arriva all'età rinascimentale, fino ad oggi. Ma il ruolo (ri)generativo dell'età moderna è dirimente: l'uomo si riscopre, si assolutizza, sembra come innalzare il proprio sé, capendo di poter riuscire a raggiungere la conoscenza attraverso un'ascesi che ha sempre quel sé come irrinunciabile riferimento.

Ecco allora, nelle pagine di Lopane, il cabalismo stesso, prima ancora il catarismo e la letteratura cortese, il ruolo di filosofi come Cusano ma anche Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, l'esoterismo, il nascente e poi imperante protestantesimo, il celebre Eickart, inevitabilmente Giordano Bruno, il pianeta vastissimo della teosofia (che arriva fino al '900, coinvolgendo il cosiddetto 'nazismo magico'), l'Illuminismo e il conseguente Deismo, il simbolismo tra occultismo e politica, fino alla letteratura di Hrand Nazariantz (come scritto, al centro degli interessi di Lopane) e di tanti altri autori. Davvero uno studio, quello del docente barese, per cui, più che una recensione, servirebbe quasi un altro saggio. Un libro che ne contiene tanti, tantissimi. Letti e, probabilmente, ancora da leggere, posti al lettore come irrinunciabile 'allegato' per continuare a soddisfare non tanto e non solo una legittima curiosità culturale quanto la necessità di seguire un particolare filo di pensiero per coglierne compiutamente i passaggi.

È il pensiero della "pia philosophia" oppure, se si vuole, della cosiddetta "filosofia perenne", sempre sotterraneo, quasi come un fiume carsico, eppur sempre vivo. Un ordito magari non sempre condivisibile -a seconda delle formazioni e delle scelte di ognuno- ma che Paolo Lopane ci riconsegna in maniera mirabile attraverso un saggio che, da oggi, se si vorrà approfondire questi aspetti, diventa, a nostro parere, irrinunciabile. Nelle conclusioni l'autore fa parlare Erich Fromm, filosofo novecentesco della Scuola di Francoforte. Citazione lunga ma opportuna: "La cultura tardo-medievale aveva come centro motore la visione della 'Città di Dio'; la società moderna si è costituita perché la gente era mossa dalla visione dello sviluppo della 'Città Terrena del Progresso'. Nel nostro secolo, tuttavia, questa visione è andata deteriorandosi, fino a ridursi a quella della Torre di Babele, che ormai comincia a crollare e rischia di travolgere tutti nella sua rovina. Se la Città di Dio e la Città Terrena costituiscono la tesi e l'antitesi, una nuova sintesi rappresenta l'unica alternativa al caos: la sintesi tra il nucleo spirituale del mondo tardo-medievale e lo sviluppo, avvenuto a partire dal Rinascimento, del pensiero razionale e della scienza. Questa sintesi costituisce la Città dell'Essere".

Lopane fa notare come, forse, in pieno ambiente medievale e francescano, già Ruggero Bacone, il coltissimo doctor mirabilis, aveva visto in questa direzione. E allora la discussione, si capirà, è ampia, davvero non può finire qui.

Testo di Marino Pagano - 24 Giugno 2020 

Articolo completo: https://www.primopiano.info/2020/06/24/la-gnosi-nel-mito-e-nella-storia/



Recensione di Francesco Medici a Lettere dal Ténéré di Paolo Lopane.
Pubblicata in Dialoghi Mediterranei.

Deserto, il grado zero dell'anima

di Francesco Medici

Un'antica leggenda che si tramanda tra le genti del Sahara narra che in un remoto passato, al posto di quell'immensa regione arida dell'Africa settentrionale che si estende attualmente per circa 5.000 chilometri di lunghezza e 2.000 di larghezza, alternando al suo interno paesaggi sabbiosi (erg), rocciosi (ḥammādah) e ciottolosi (serir o reg), vi era una sconfinata distesa verde, fresca e lussureggiante, ricca di corsi d'acqua e densamente abitata da popoli che vivevano felici e in pace. Dio avrebbe però raccomandato agli uomini di agire sempre secondo giustizia, altrimenti avrebbe lasciato cadere un granello di sabbia sulla terra per ogni loro empietà. Ma con il tempo essi finirono per perdere la retta via, dimenticando quel monito divino. All'inizio quasi nessuno si accorse dei primi granelli che andavano accumulandosi sul terreno, altri invece sottovalutarono quel fenomeno, ritenendo che ci sarebbero voluti milioni di anni prima che quella polvere leggera potesse arrecare loro qualche danno. Gli uomini iniziarono quindi a combattersi gli uni contro gli altri, tribù contro tribù, finché la sabbia seppellì rapidamente campi e pascoli, disseccò i ruscelli e spinse le povere bestie sempre più lontano in cerca di cibo. Perché gli esseri umani rimpiangessero la terra perduta e non dimenticassero le loro colpe, Dio punteggiò il deserto di radi e isolati palmeti, inoltre fece sì che di tanto in tanto, all'orizzonte, si presentasse allo sguardo dei viandanti, come in un sogno a occhi aperti, l'immagine illusoria di rigogliosi paesaggi ameni che oggi si suole chiamare generalmente miraggi. Anche il Profeta Muḥammad, fin dall'infanzia, deve aver udito raccontare questa leggenda, ed è probabile che anche per questa ragione, in contrapposizione alle tinte smorte e monotone dell'inospitale territorio desertico, volle che fosse il verde il colore rappresentativo della fede in Allāh, chiaro simbolo di quel Paradiso (termine che etimologicamente significa per l'appunto "giardino") in cui ogni pio musulmano anela di entrare alla fine dei suoi giorni terreni.

Eppure, a dispetto di un adagio arabo secondo il quale «nessuno vive nel Sahara se può vivere altrove», è raro che il deserto venga percepito come un castigo da chi vi risiede. Ad esempio, per i Sahrawi - in particolar modo per i Tuareg - esso costituisce piuttosto una benedizione divina. Tutte e tre le religioni abramitiche sono nate infatti nel cuore del deserto, e si potrebbe peraltro aggiungere che i popoli autoctoni dell'area nordafricana, designati in Occidente come Berberi, non vedono assolutamente in quelle sterminate lande desolate una prigione cui Dio stesso li avrebbe condannati: lo dimostra il semplice fatto che nella loro lingua nativa essi si definiscano di contro Imazighen, "uomini liberi", cioè abitanti di un territorio che è di per se stesso paradigma della libertà.

Per i ṣūfī, i mistici dell'Islam, il deserto rappresenta il grado zero dell'anima, cioè quello stadio cruciale di evoluzione interiore in cui la consapevolezza perviene a un vicolo cieco, ovvero a quella fase di profonda crisi esistenziale in cui non si intravede alcuna speranza e tutto appare privo di significato. Ogni consapevolezza deve inevitabilmente attraversare il deserto - il deserto dell'angoscia, della disperazione, dell'assurdità, del senso di perdita e di morte - per raggiungere la piena maturità: è insomma la tappa fondamentale e ineluttabile dello sviluppo spirituale. Ma come trascendere il deserto? Il fragile castello di misere certezze, faticosamente costruito nell'arco di un'intera esistenza, non potrà essere di alcun conforto. Occorre piuttosto abbandonare le proprie consuetudini, il passato, il conosciuto, per iniziare un viaggio all'insegna del nuovo, dell'ignoto. Il deserto bisbiglia, si dice, ma bisogna saperlo ascoltare. Ed è questa la quintessenza della meditazione: porsi in silenzioso ascolto del proprio Sé - quello che nel sufismo (taṣawwuf) si definisce "l'Io più grande" - per scorgere infine la luce.

Il deserto può insegnare la resa, far comprendere che non si può restare identici a se stessi, perché la vita è movimento e non è dato arrestarsi, avvinghiarsi ad alcunché, né tornare indietro. Soltanto allora quella crisi interiore si tramuterà fatalmente in un'imperdibile opportunità per una trasformazione radicale, a condizione di avere il coraggio necessario per mettersi in cammino, per rischiare ogni cosa. «Un uomo che rifiuta di conoscere il suo Dio, non è saggio abbastanza da

mettere piede nel deserto» - lo sa bene Adrien, protagonista di Lettere dal Ténéré (Falvision Editore, 2018) di Paolo Lopane, che nella premessa al volume dichiara: «attraversare in filigrana gli oscuri labirinti dell'anima [...] può infine ricondurci alla "visione delle essenze", che è il fine ultimo di ogni gnosi: l'appuntamento con l'Assoluto. Questo breve romanzo - o lungo racconto - è una testimonianza di tale tentativo; in parte, un fedele resoconto».

Con questa sua ultima opera, l'autore barese, già noto come fine storico dei movimenti ereticali medievali e degli ordini cavallereschi (tra i suoi numerosi e autorevoli lavori, si citano qui alcuni saggi pubblicati da Besa Editrice: Il risveglio della gnosi nella Francia albigese [2001]; I Templari. Storia e leggenda [2004]; I Catari. Dai roghi di Colonia all'eccidio di Montségur [2011]; Insediamenti cavallereschi in Puglia. Templari, Teutonici, Ospitalieri [2015]), esordisce come narratore, benché queste sue Lettere non siano propriamente classificabili come un romanzo epistolare - almeno secondo i canoni letterari convenzionali. Si tratta piuttosto di una sorta di breve diario di viaggio composto nell'Erg del Ténéré, un journal intime le cui annotazioni coprono poco meno di due mesi estivi, dal 14 luglio all'11 settembre 2014, con l'aggiunta in appendice di una pagina non datata redatta presso Villeneuve-sur-Lot (Midi-Pyrénées), comune della Francia meridionale.

La trama si può ricostruire scandagliando i soliloqui in interiore homine di Adrien. L'uomo (sulla cui identità biografica il lettore apprende solo scarse informazioni), prostrato dalla morte improvvisa della donna amata «in un terribile incidente», trascorre «dieci anni di anoressia dell'anima» in un nosocomio di Tolone, a ovest della Costa Azzurra. Dimesso dalla clinica, il ricordo della sua Corinne - cui l'opera è dedicata e che è la sola (ideale) destinataria di tutte le missive - non si è affievolito, e neppure lo strazio del distacco. Inizia così un catartico, palingenetico cammino interiore lungo il periplo della sua stessa esistenza in cerca di quell'amore inesorabilmente perduto che lo condurrà a peregrinare principalmente tra le regioni desertiche di Marocco, Algeria e Niger - e tra i fieri abitatori di quei luoghi, sopravvissuti a diversi tentativi di genocidio e a ogni sorta di vessazioni - per poter finalmente rinascere a nuova vita: «Sì, Corinne [...] non si viene qui per nascondersi, ma per ritrovarsi. E dovevo farlo, ora che ti ho ritrovata».

Il viaggio di Adrien (personaggio forse ispirato all'Adrian Leverkühn del Doctor Faustus di Thomas Mann), reale o metafisico che sia, si costella di innumerevoli guide: fari delle epoche passate (recenti o lontane), ritrovati nei loro insegnamenti incorruttibili e imperituri consegnati ai posteri, ma anche interlocutori in carne e ossa. Alla prima schiera appartengono eminenti figure sia occidentali sia orientali: da Carl Gustav Jung con il suo Libro Rosso all'autore algerino Malek Haddad; da Ǧalāl al-Dīn Rūmī a Massimo Scaligero (cui si allude implicitamente nel testo come a un «misconosciuto scrittore italiano»); da Ibn ʿArabī (ricavato essenzialmente dai folgoranti studi di Corbin) al Goethe del Faust; dal poeta ceco Vítezslav Nezval al Friedrich Nietzsche dello Übermensch predicato da Zarathustra. Vi sono poi gli 'incontri' del protagonista con individui 'straordinari' (per dirla con Gurdjieff) tra cui: il ṣūfī Abìd (ʿAbid), illuminato custode dei «segreti della parola»; l'amazigh Yussuf (Yūsuf), campione di dignità, integrità e saggezza; il mistico ḥăsīd Shlomo, «irriducibile giocoliere delle sefīrōt»; l'oniromante e chiaroveggente Khadidja (Ḫadīǧah), fulgido esempio di donna tuareg, forte e indipendente, che indicherà ad Adrien la meta decisiva.

Se è vero che Lettere dal Ténéré risente di molteplici e complesse suggestioni mistico-religiose (connesse non soltanto alle tre maggiori fedi monoteistiche, ma anche all'Animismo, alle credenze preislamiche, allo Zoroastrismo, alla fede indo-buddhista...), Adrien individua principalmente nella gnosi la suprema koinè spirituale, l'unico vero ed eterno ponte tra Occidente e Oriente, la sola via percorribile per l'«Oltreuomo».

Una massima popolare diffusa nel deserto, invero non citata nelle Lettere, recita: «Confida in Dio, ma lega il cammello». Sembra che tale detto, talvolta adoperato in modo simile al nostro proverbio «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio», sia tratto in realtà da una parabola ṣūfī che racconta di un maestro in viaggio con un discepolo cui il primo aveva affidato il compito di occuparsi del loro mehari (dromedario o cammello arabo). Giunti una notte presso un caravanserraglio, il discepolo, assonnato e indolente, tralasciò di legare l'animale, limitandosi, prima di coricarsi, a pregare Dio

perché vegliasse su di esso. Il mattino seguente, come è facile immaginare, non vi era più traccia della bestia. All'incauto discepolo, che si giustificava sostenendo di non avere alcuna colpa per l'accaduto, essendosi raccomandato direttamente a Dio di fargli da guardiano, il maestro rispose: «Affidati ad Allāh, ma prima lega il cammello, perché Allāh non ha che le tue mani». Questa parabola potrebbe essere utile a chiarire quella che è forse la principale differenza tra Oriente e Occidente, intendendo i due termini non certo nella loro mera accezione geografico-culturale, ma come grandi categorie umane. Riporre assoluta fiducia in Dio e al contempo rimanere completamente inerti è per certi versi una consuetudine tipicamente 'orientale'; confidare esclusivamente nelle proprie forze senza nutrire altra fede se non in se stessi è invece l'atteggiamento che sta alla base dell'ipertrofica e ottusa tracotanza 'occidentale'. Ma esiste una 'terza via', insegna la parabola, che è anche quella percorsa da Adrien e che costituisce il significato più autentico dell'amor fati, concezione di ascendenza stoica tanto cara a Nietzsche: vivere in pienezza senza lasciare nulla di intentato e senza sottrarsi alle proprie responsabilità, e poi accogliere con gratitudine e con gioia qualsiasi conseguenza ne potrà derivare.

Tutte le fotografie riprodotte a corredo del presente articolo (alcune delle quali compongono l'apparato iconografico di Lettere dal Ténéré) provengono dall'archivio personale di Paolo Lopane, che ha anche generosamente accettato l'invito alla seguente intervista.

Lettere dal Ténéré si presenta come un'opera iniziatica. Alla stregua dello Zarathustra nietzscheano, si potrebbe definire anch'esso «un libro per tutti e per nessuno». Come è nato un simile progetto?

In realtà, non v'è mai stato alcun progetto; o, perlomeno, non nel senso comunemente attribuito all'espressione. La narrazione ha preso forma quasi da sé in occasione del mio penultimo soggiorno nel Sahara, al confine tra Marocco e Algeria, nell'estate del 2017. Lì è stato concepito il romanzo e sempre lì, fra quelle sabbie, ho composto le prime pagine di un racconto ripreso e ultimato soltanto nel dicembre dello stesso anno, in pochi giorni di lavoro ininterrotto. È un viaggio dell'anima nell'anima, un viaggio a ritroso nella memoria, una testimonianza diretta - ben poco elaborata - di un personale percorso di totalizzazione dell'essere, di cerca (e ricerca) di ciò che Jung chiamò «il Sé» e che nel linguaggio gnostico è il «vero Io». Il protagonista del racconto, Adrien, è un uomo stanco e affamato, affamato d'Assoluto e stanco, mortalmente stanco dei vaniloqui sterili delle accademie, disincantato nei confronti di ogni fede normativa e delle risposte monche della filosofia; e per cercare la radice ultima dell'Io, la radice intima dell'Essere e di ogni essere, Adrien fa saltare a un certo punto ogni ponte e si spinge - la vita stessa lo spinge - in latitudini dello spirito che travalicano anche materialmente l'Occidente e il suo vuoto di senso per riscoprire culture altre, culture del sacro, culture che il mondo globalizzato considera marginali, ma in cui non si è ancora spezzato del tutto l'axis mundi, l'Asse del Mondo, il mitico asse di collegamento fra il Cielo e la Terra... È così che Adrien conosce Abìd, l'uomo che lo inizierà alle mistiche di ogni tempo, all'unità trascendente delle religioni, e si ritrova, anni dopo, nel deserto dei deserti - il Ténéré.

La tradizione gnostica indica due differenti vie per trascendere la dualità. Una è la cosiddetta "via purgativa" (quella ad esempio dello zen o dello yoga), che si fonda essenzialmente sulla pratica della meditazione trascendentale: l'obiettivo è depurarsi dalle proprie sovrastrutture mentali e dalle oscurità della vita mondana, svuotarsi totalmente, diventare nulla, 'non-sé', fino alla scomparsa dell'ego, che si fa mero testimone, una sorta di limpido specchio della realtà fenomenica che non conosce giudizio né attaccamento. C'è poi la "via unitiva", la via del cuore attraverso l'amore, che è quella del monaco, del ṣūfī, il quale, anziché procedere 'per sottrazione' nel suo percorso ascetico, tende invece a colmarsi fino a traboccare. Ed è in tal modo che egli perviene a una reductio ad unum in cui Amante, Amato e Amore si fondono e diventano il Tutto. Parafrasando il poeta mistico persiano Hakīm Sanā'i nel suo poema Ḥadīqat al-ḥaqīqah (Il giardino della verità), se un uomo puro unisce due in uno, l'amante unisce tre in uno. In questa unio mystica l'io scompare e resta Dio: per trovare Dio, fine ultimo dell'esistenza umana, bisogna infatti morire a se stessi, raggiungere il fanā' (la condizione in cui il ṣūfī si eleva in una mistica

unione con Allāh), l'estasi, l'annientamento totale. Perché Adrien, che conosce entrambe le vie, sceglie di intraprendere quella della mistica unitiva?

Non si tratta, propriamente, di due distinte vie. Queste categorizzazioni sono frutto della tendenza occidentale a sezionare e 'formattare' dialetticamente qualsiasi aspetto della conoscenza, compreso ciò che per sua natura rifugge dalle semplificazioni dialettiche: il mistero del trascendimento di sé, il trascendimento dell'ego per la resurrezione del Sé, lo junghiano «Spirito del profondo». La "via purgativa" e la "via unitiva" rappresentano, in realtà, tappe (o, per così dire, risvolti) di un unico percorso, perché solo nettando e riportando il pensiero alla sua intima scaturigine - la Coscienza pensante -, l'individuo può unirsi alla sorgente primigenia del pensare: il Lógos, che è il Dio vivente. Purificare le forze dell'anima - il pensare, il sentire, il volere - significa muovere consapevolmente verso una tale unione, perché questo anelito, questa liberatoria tensione dell'anima la strappa progressivamente al cono d'ombra che ne vela o ne cela la Luce, la sua intima Luce, svelando la radicale realtà del proprio essere: il Dio nell'Io, l'Amante che si fa Amato, l'Amante che è l'Amato. La liberazione del pensiero dalle sentine del subconscio - l'Ombra di junghiana memoria - è infatti il presupposto stesso dell'Amore, il vero amore, l'amore che si accende nell'anima quando l'anima, il cui tessuto di luce risplende nel fluire del pensare come nell'ordito del sentire, inizia a liberarsi dalle ombre della cerebralità, dallo spirito di avversione, dagli istinti che si convertono in fantasmi di pensiero. Quanto al cammino di Adrien, non v'è dubbio che la forza dell'amore umano, quando non chieda nulla per se stesso e ogni cosa intenda dare, possa rasentare o sconfinare nel Divino. La via dell'amore umano - come ben sapevano (o intuivano) figure come quelle di Dante, Ibn ʿArabī o del poeta bengalese Caṇḍīdās, il cantore della Sahaja - è una vera e propria via di reintegrazione spirituale, un percorso di totalizzazione dell'essere, un viatico per altri cieli e per altri orizzonti. Ma occorre, per questo, trascendere la forma dell'altro, cercare l'altro dove l'altro è, non dove semplicemente appare, elevarlo alla sua cifra metafisica, al suo archetipo celeste, ricondurlo alla sua dimensione cosmica, all'«Uomo Universale» (al-Insān al-kāmil), dionisiacamente frammentato in ogni Io. L'altro è un altro Te stesso, con una storia un po' diversa.

Alcuni versi del Mas̱nawī di Ǧalāl al-Dīn Rūmī, sommo poeta mistico dell'Islam, recitano: «Se tiriamo una freccia, non siamo noi a farlo: noi siamo soltanto l'arco, l'Arciere è Dio». Essi ricalcano a loro volta il versetto coranico «[...] e non eri tu a lanciar frecce, bensì Dio le lanciava; e questo per provare i credenti con prova buona, poiché Dio è ascoltatore sapiente» (8,17). Nelle Lettere dal Ténéré ricorre invece una citazione da Così parlò Zarathustra: «Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all'altra riva». Anche Adrien non si dimostra affatto tenero verso quella che descrive come «un'umanità alla deriva», «una civiltà spiritualmente esangue [...] nella sua vana corsa verso il Nulla». Tuttavia la fase più critica della sua vita ha inizio proprio quando egli comprende di non riuscire ad affrancarsi completamente dalla «coscienza necrotizzata dell'Occidente»: «Guardavo al cielo - afferma amaramente - e strisciavo sulla terra». Ed ecco allora che ritornano nelle sue riflessioni i simboli citati: «Sapevo di essere freccia e sapevo di essere l'arco. Ma non sapevo come tenderlo. Non ne avevo ancora la forza, né la consapevolezza. Sapevo solo che c'è un Oltre, e che, al di qua di quell'Oltre, io soffocavo [...] sapevo di essere ad un bivio esistenziale - un bivio cosmico, metastorico, al centro della mia parabola umana». Quale forza oscura impedisce agli uomini - perfino nel caso di quelli più consapevoli, più tormentati dalla «nostalgia del ritorno» - di spiccare il volo verso l'Oltre? Quali insegnamenti dovrebbero trarre gli occidentali dall'Oriente per realizzare ciò che Nietzsche definisce il «grande anelito»?

La forza oscura che ci tarpa le ali è quella stessa che impedì a Nietzsche non solo di realizzare, ma anche solo di intuire i retroscena spirituali del suo «grande anelito». Fu questa la sua immane tragedia, la tragedia di una gigantesca figura di pensatore che, mosso dalla radicale forza dello Spirito, finì per avversare, negandola, la forza stessa che lo muoveva. Che cos'era il «Dio Ignoto» al quale dedicò una nota lirica giovanile - il Dio che gli afferrava l'anima «nel profondo» e che voleva «conoscere e servire» - se non la virtualità del Dioniso lacerato e 'crocifisso' in ogni anima?

Che cos'era il suo «Oltreuomo» se non l'immagine del 'Dio nell'Io', l'archetipo dell'Uomo nuovo, figura della morte di Dio nell'anelito alla resurrezione dell'Io? Perché mai definì il Buddhismo, per il quale ebbe parole di apprezzamento, «religione dell'autoredenzione»? Perché il Buddhismo non delega a un Dio normativo la salvezza dell'uomo... Ma il Cantore di Zarathustra, il Solitario di Sils-Maria, precipitò il suo «Dio danzante» nell'infernale abisso dell'Antiuomo, scaraventandolo dalle sue vette. Ciò che sta affondando la nostra civiltà, ciò che ne segna un declino che pare ormai inarrestabile, è l'inaridirsi della vita spirituale. Ben scrisse Nietzsche, interrogandosi sulla deriva di un'altra civiltà - quella ellenica -, che «un popolo, come, del resto, un uomo, solo di tanto vale, in quanto sappia imprimere sugli eventi della propria vita il sigillo dell'eterno». Di fatto, come ho scritto nella premessa alle Lettere, lungi dal recare impresso il «sigillo dell'eterno», l'Occidente si è smarrito nella divinizzazione del presente, un presente che sub specie saeculi coltiva, canonizza e venera l'evanescenza dell'essere. È in questo desolato scenario, nel vuoto valoriale e nei deserti delle coscienze, che hanno fatto irruzione i nuovi barbari del fondamentalismo - di tutti i fondamentalismi -, surrogati di idee morte nella morte delle Idee. Il pensiero logico - il pensiero dialettico - è senz'altro il fondamento della libertà intellettuale (quindi, della libertà tout court); ma ove si fermi alla propria dimensione cerebrale, ove non sappia attingere alle proprie intime scaturigini e aprirsi il varco a quella «visione delle essenze» che è stato (ed è) il fine di ogni gnosi, finisce per inaridirsi e perdersi nelle secche del relativismo: il relativismo della verità, che è poi il relativismo della morale. Ma il relativismo della verità, figlio di un pensiero disanimato, prosciugato d'ogni linfa spirituale, ha generato il totalitarismo del pensiero unico, la globalizzazione dell'indifferenza, il vuoto di senso del conoscere e dell'esistere: la fine di ogni civiltà. È assai più che il «tramonto dell'Occidente»: è l'eradicazione dell'Umano, è il nietzscheano «deserto che avanza», l'annunziato avvento della «Terra Desolata». Nella metafora ezecheliana, è invero questione dell'inabissamento della luce dello Spirito, della perdita di quella conoscenza trascendente che, sola, può impedire al deserto di farsi strada nelle coscienze. A nulla vale il pensiero anemico di un'intellighenzia déboussolée. La cultura non costituisce un fine in sé. Per dirla con Pavel Nikolaevič Evdokimov, «oggettivata, diviene un sistema di coercizioni, e, in ogni modo, chiusa nei propri limiti, il suo problema è insolubile. Presto o tardi, il pensiero, l'arte, la vita sociale si arrestano al proprio limite, e allora la scelta s'impone: installarsi nell'infinito vizioso della propria immanenza, inebriarsi della sua vacuità o superare le sue strangolanti limitazioni e, in una trasparenza di acque chiare, riflettere il trascendente». La gnosi - la vera gnosi - non è 'fuga dalla storia', ma viatico e consapevolezza della sola libertà possibile, della sola via d'uscita possibile: emancipazione da quella che Jung, valicando la prospettiva psicanalitica, aveva eloquentemente definito l'«Ombra»: l'Ombra del Mysterium coniunctionis, l'Ombra di Aiόn, l'Ombra che ha subdolamente trasformato leggi, Chiese e religioni in beffe e trappole e, per dirla con Jacques Lacarrière, nel «perpetuarsi di un inganno millenario». Il suo inganno - la sottigliezza dell'Ombra - è nel non farsi riconoscere.

Abìd - capo di una confraternita ṣūfī, la cui zāwiyyah è situata a Rissani, a ridosso del deserto marocchino - è senza dubbio, tra le altre, una delle figure di riferimento più importanti nel cammino spirituale di Adrien. Molti tratti che lo contraddistinguono ricordano quelli di un misterioso personaggio anonimo, compagno e guida di Mosè, di cui parla il Corano (18,59-81). Alcune tradizioni gli attribuiscono l'appellativo di "al-Ḫaḍir" (o anche "al-Ḫiḍr", letteralmente "il Verde" o "il Verdeggiante") e la leggenda popolare ne ha fatto un eterno viandante, immortale, sapiente e benefico - nonostante i modi apparentemente bruschi -, che si manifesta all'improvviso, in sogno oppure nella vita ordinaria, per aiutare i buoni. Nelle Lettere dal Ténéré Abìd viene infatti descritto come «una di quelle rare creature che il destino ti mette davanti per farti crescere, per farti destare. Non per farti 'sognare'. Anzi. A volte è duro, intransigente, ma capisci che nel suo modo di essere, nelle sue apparenti brume caratteriali, splende sempre una luce d'amore». Si dice inoltre che al-Ḫaḍir sia il capo soprannaturale della gerarchia mistica (secondo certe correnti ṣūfī egli sarebbe superiore perfino al Profeta Muḥammad, tanto che esiste una ṭarīqah risalente al XVIII secolo denominata Ḫaḍiriyyah, fondata sulla sua sola autorità da parte di uno šaiḫ marocchino),

iniziatore alla verità mistica, alla realtà soggiacente al mondo delle apparenze. L'illustre orientalista Henry Corbin sostiene per l'appunto che al-Ḫaḍir «emancipa dalla religione letterale» e «conduce ognuno alla sua propria teofania», poiché egli è l'immagine stessa della metamorfosi, la forma apparente assunta dallo spirito di santità. E così anche la gnosi di Abìd («lui che rispetta tutte le forme è andato oltre ogni forma» commenta Adrien) riflette la relatività della percezione umana e realizza la forma del Nome nascosto di Dio, cui si collegano la santità e le scienze mistiche. Si tratta di un'interpretazione forzata, oppure esiste una reale affinità tra queste due figure?

Come affermò Clemente Alessandrino, «il vero gnostico non possiede la gnosi, il vero gnostico è la gnosi»; e il ṣūfī Abìd, gradualmente assurto alla vera gnosi - la «conoscenza che rende liberi» -, si è portato ai confini del mesocosmo, ossia nel 'luogo' della coscienza in cui lo Spirito può rivelarsi attraverso immagini: come, appunto, quella di al-Ḫaḍir, il «fanciullo» di Dio che Allāh, nella sura XVIII del Corano, dice istruito nella «Nostra scienza» e che nel sufismo moderno è ancora indicato quale ispiratore degli Afrād, gli «Spirituali» o «Solitari». Si tratta di un'enigmatica figura che la tradizione islamica identifica con il profeta Elia e che, immortale rappresentante della tradizione primordiale, vaga sulla Terra illuminando e ridestando gli «uomini di Dio». Per quanti possano udirlo, egli parla nei pensieri e può manifestarsi in forma angelica. È un veicolo della Verità vivente, di quella conoscenza sorgiva che rampolla nella luce del pensiero e, quale atto intuitivo immediato, traluce nella poesia ṣūfī nell'espressione al-naẓar, che è il diretto vedere contrapposto a al-ḫabar, il semplice 'avere notizia'. Una cosa è l'apprendimento razionale, altra la conoscenza metarazionale. Abìd conosce bene al-Ḫaḍir.

La «santa, benedicente, immacolata bellezza» di Corinne - la cui immagine nelle Lettere viene accostata a quella della «Ragazza del Ponte Cinvat» (il Cinvat-Peretu dell'Avestā, menzionato anche dal mistico persiano Suhrawardī, che segna il passaggio tra il mondo terreno e quello celeste) e della stessa Vergine Maria, fino a farsi sembiante dell'Eterno Femminino - è rivelazione di Dio, «un Dio che feconda e nutre, è Padre e Madre, è Uomo e Donna, ed è ovunque». Corbin, nella sua lettura in chiave teosofica dell'opera di Ibn ʿArabī spiega che la «tenera e amabile fanciulla» celebrata dal grande poeta e mistico arabo altro non sarebbe se non la figura teofanica della Sophia aeterna: attraverso «l'immaginazione» si può infatti cogliere la presenza divina nel mondo dei fenomeni e di conseguenza anche un amore 'profano', umano, possiede in potenza tutti i requisiti per diventare viatico per l'amore divino. Questa «immaginazione creatrice» (per citare ancora una celebre espressione corbiniana riferita a Ibn ʿArabī) appartiene anche ad Adrien? Si potrebbe sostenere che sia stata proprio la perdita della donna amata - e la conseguente «fiumana di dolore» - ad accrescere in lui la sfera percettiva e dunque anche il suo «mondo immaginale»?

Se Teseo sconfigge il Minotauro ed esce infine dal labirinto, è grazie al filo di Arianna, al coraggio di lei, alla forza sacrificale del suo amore. E se, in un altro celebre mito, la lira di Orfeo viene incastonata in cielo per volontà di Zeus, non è per la bellezza struggente della sua musica, ma perché la lingua già fredda del poeta tracio, ormai spirante, continuava a ripetere tra i flutti il nome della sua Euridice. Corinne continua ad essere, ad attendere Adrien all'ingresso del Ponte Cinvat. Adrien può vederla, inabissarsi «nel segreto di lei», e ripetere con al-ʿAlawī, il poeta di Mostaganem: «Anche se la prossimità si cancella, nella sua sussistenza io sussisto per sempre».

Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019

Francesco Medici, membro ufficiale dell'International Association for the Study of the Life and Work of Kahlil Gibran (University of Maryland, USA), è tra i maggiori esperti e traduttori italiani dell'opera gibraniana, nonché autore di vari contributi critici su altri letterati arabi della diaspora tra cui Ameen Rihani, Mikhail Naimy ed Elia Abu Madi. Si è inoltre occupato di letteratura italiana moderna e contemporanea, in particolare di Leopardi, Pirandello e Luzi. Docente di materie letterarie nella scuola secondaria, lavora attualmente in un CPIA di Bergamo come insegnante di italiano L2.


Lettera di Michele Emiliano, Sindaco di Bari, al prof. Paolo Lopane.

Michele Emiliano, Sindaco di Bari, in seguito all'assegnazione del Premio internazionale di Poesia e Letteratura "Nuove Lettere" alla raccolta di saggi "Hrand Nazariantz, Fedele d'Amore", opera del prof. Paolo Lopane in collaborazione del Centro Studi Hrand Nazariantz di Bari, Rivolge al prof. Paolo Lopane un "Saluto" ufficiale; di seguito il contenuto:

Gentilissimo Prof. Lopane,

              con immenso piacere apprendo dell'assegnazione del Premio internazionale

di Poesia e Letteratura "Nuove Lettere" alla Sua raccolta di saggi "Hrand

Nazariantz, Fedele d'Amore", in collaborazione del Centro Studi Hrand Nazariantz

di Bari.

             Ritengo sia un giusto riconoscimento non solo per la straordinaria capacità di

Celebrare l'intellettuale armeno e ciò che, ad oggi, rappresenta un eccezionale

testamento culturale, ma anche per il lodevole impegno con cui un gruppo di studiosi

è riuscito a rileggere, attraverso l'incontro con Nazariantz, la "questione armena",

il primo tragico genocidio della storia.

             L'opera, che abbiamo avuto il privilegio di conoscere durante una

presentazione a Palazzo di Città avvenuta lo scorso anno, costituisce un puntuale

approfondimento storico-culturale, ed etico aggiungerei, sul carisma e sulla poetica

di Nazariantz, personalità unica cui l 'intera comunità pugliese, e barese in

particolare, deve moltissimo.

            A Lei, dunque, vanno il caloroso abbraccio e il ringraziamento, mio personale

e dell' intera città di Bari, per la tenacia e la cura con cui è riuscito a condurre

questo interessante percorso di studio e di divulgazione.

Michele Emiliano

Sindaco di Bari


Convegno "Armeni : Genocidio di un popolo dimenticato".

Convegno "Armeni: Genocidio di un popolo dimenticato"

Mercoledì 24 Aprile 2013
Palazzo di Città - Sala Consiliare
Comune di Bari


"I Templari. Storia e leggenda".

di Gino Leonardo Di Mitri

Il libro di Paolo Lopane si inserisce nel solco nobile di una letteratura che va da Cardini a Bloch e da Runciman a Demurger. L'autore si è posto l'obiettivo di guidare i lettori alla conoscenza dei duecento anni che dividono la nascita dell'Ordine più prestigioso del Medioevo dal processo sommario che ne segnò l'estinzione.

Amplificato dalla ricerca per il sensazionale e dalla curiosità per l'esoterico, il capitolo storico dei Templari ha subito, in anni recenti, un'attrazione da parte dell'industria culturale che ne ha sconvolto i lineamenti e falsificato i reali connotati. Il risultato, sul piano librario e su quello mediatico, è stato il fiorire di pubblicazioni e di film - di scarsa tenuta scientifica le prime, di esclusiva vocazione alla spettacolarità i secondi - che ben pochi benefici hanno arrecato alla conoscenza dei fatti e del fenomeno. Certamente si potrà sempre dire "bene o male non importa, purché se ne parli"; ma poiché la vicenda stessa dei Templari è divenuta celebre per un caso clamoroso di stravolgimento della realtà, e anzi si è configurata come un esempio di immane falsificazione, il rischio è che di questo passo la storia dell'ordine dei Templari diventi materia per facile divulgazione di fantastoria se non addirittura per editoria di basso rango.

A sventare questo rischio giunge in soccorso il libro di Paolo Lopane "I Templari. Storia e leggenda"(Besa Editrice, 150 pp., 12 euro), che si inserisce nel solco nobile di una letteratura che va da Cardini a Bloch e da Runciman a Demurger. L'Autore, non nuovo a opere di storia medioevale come una sua precedente monografia sull'eresia albigese edita dalla stessa Besa, si è posto l'obiettivo di guidare i lettori alla conoscenza dei quasi duecento anni che dividono la nascita dell'Ordine più ricco e prestigioso del Medioevo dal processo sommario che ne segnò l'estinzione intentatogli contro da Filippo il Bello. In ambito di storia generale Franco Cardini, dal canto suo, anche a causa dell'emergere di un poderoso fronte critico in margine ai fatti bellici dell'Iraq, ha saputo giovarsi di una insperata trasversalità per rappresentare una posizione "revisionista" che ha di fatto spinto a una rivalutazione del ruolo dei Templari nel secolare confronto tra Islam e Occidente. Grazie al contributo di Cardini, il concetto stesso di crociata e di "gihad" hanno subito una mutazione parallela e sincrona di segno: da mere guerre di religione esse sono in realtà divenute una nozione più ampia inerente l'ambito subbiettivo, riportando l'attenzione del pubblico non solo e non più sui grandi fatti evenemenziali, ma finalmente sulle categorie della devozionalità, della mentalità e del trapianto incrociato di elementi spirituali da un versante all'altro del sentimento di fede. All'interno di questo esteso campo storiografico, il merito del libro di Lopane sta invece nel ricostruire tutti gli antecedenti della vicenda congregazionale e processuale: sia quelli scolpiti nelle fonti storiche che quelli iscritti nell'alone leggendario che da sempre ammanta i Templari; sia le pagine edificanti della cristianità occidentale da essi incarnata in Terra Santa che quelle a ragione definite "outrées" dei massacri contro la popolazione mussulmana, ebrea e cristiano-orientale; ma soprattutto il nesso inseparabile tra sfera spirituale e sfera politica che lega la vicenda dei Templari alla storia d'Europa e del Mediterraneo. Questo importante e decisivo antecedente può considerarsi il vero atto di fondazione dei Templari ed è rappresentato dal ruolo avuto da San Bernardo di Chiaravalle e dai Cistercensi nel negoziato per la creazione dell'ordine: un negoziato che trascese la questione medio-orientale e la difesa dei luoghi del Santo Sepolcro per proiettarsi in ambito europeo. Insomma, il "De laude novae militiae" del Claravallense fu documento che, nato per proclamare la crociata, sancì anche e soprattutto il radicamento continentale del nuovo ordine, mentre spettò alla regola del concilio di Troyes contenere tutti gli aspetti di minuto comportamento in guerra dei monaci combattenti. In questo senso, Lopane sembra aver tratto profitto dalla acuta lezione storiografica francese sul Medioevo inserendo la nascita dei Templari nel più complesso movimento di trasmutazione dei cavalieri da orda selvaggia, dedita alla caccia e alle razzie, a ordine consacrato ai valori di rispetto per la persona umana. Proprio il capitolo sulla "Règle du Temple" mette in luce la diffusione di questi ideali e queste pratiche; e come non solo i Templari, ma anche altri Ordini quali gli Ospitalieri, i Teutonici o l'ordine di San Lazzaro, conformarono la propria regola sul modello di quella templare.

A tal proposito, un altro aspetto interessante dell'approccio analitico di Lopane è quello di scavare all'interno della "Regula" al fine di aiutare il lettore a comprendere i principi di autorità e di ubbidienza, la struttura gerarchica dell'ordine, le prerogative degli oblati e dei militi reclutati fra le popolazioni cristiane indigene, il ruolo delle "sorores" ausiliarie come serventi e infermiere: insomma, l'organigramma dell'ordine.

Ma se mi è consentito sottolineare quello che a mio avviso è l'aspetto ben più interessante del libro, dirò che esso risiede nella capacità dell'autore di vagliare tutte le fonti storiche e di finalizzare il suo racconto all'attualizzazione dei problemi del Medio Oriente già affiorati all'epoca delle crociate. Un esempio fra molti: la rilettura del trattato fra Federico II e Al-Kamil del 1229 in cui, secondo Lopane, il riconoscimento della pertinenza islamica dell'intera spianata delle Moschee avrebbe costituito il primo riconoscimento (anche se non formale) di Gerusalemme quale "Città delle Tre Religioni". Ma c'è di più. Di poco precedente all'esperienza templare è l'opera dell'arabo ispanico Ibn Bâjja, noto come Avenpace, che con le sue riflessioni sull'anima e sugli ideali incredibilmente agostiniani di vita solitaria (ideali che furono in seguito del nostro Petrarca), rivela come ci fu inevitabilmente un flusso contrario, e latentemente cristiano, che influenzò il pensiero arabo medioevale. Ibn Bâjja spianò la strada alla grande fortuna di Averroè, cioè di Abu al Walid Ibn Rushd, fra gli scrittori e gli scienziati europei del Basso Medioevo. La ricerca di un dialogo - se non altro diplomatico - con l'Islam, di cui furono fautori i Templari, era già scritto nel codice della civiltà del Mediterraneo. E questi mistici guerrieri, per lo più provenienti dal Nord Europa, con la loro drammatica testimonianza chiusero un cerchio apertosi un paio di secoli prima di loro con l'umanesimo arabo-aristotelico.

Senza dubbio, le ragioni che condussero all'annientamento di quest'ordine monastico combattente vanno ravvisate nell'avidità di Filippo il Bello e in una congiuntura internazionale che, ponendo in primo piano i nuovi soggetti statali come le monarchie nazionali, chiedeva alle ambiziose teste coronate sempre maggiori risorse finanziarie pur di erodere all'Impero e al Papato margini di potere. E ciò è stato magistralmente illustrato da Paolo Lopane. Tuttavia, il processo e il rogo dei Templari, più che un amaro epilogo, fu l'inquietante prova generale di una rampante razza padrona per altri conflitti e altri olocausti a venire. Sto parlando delle guerre di religione che imperversarono in Europa fino ai primi lustri del XVIII secolo. Ma una cosa è certa: con i Templari fu tutto un mondo a morire, non solo quello dell'illusione di un controllo europeo e cattolico sull'Oriente. Morì l'epopea cavalleresca, rimpicciolita al rango di mirabolante letteratura ad uso delle agonizzanti corti italiane del '500; morì l'assetto feudale e divennero insensate le presenze di un imperatore e di un papa, rispettivamente surclassati dai monarchi nazionali e dalle chiese riformate; morì infine una cultura del confronto tra fedi, mentalità e ordinamenti: una cultura che, sebbene retta dalle spade e dagli scudi, riusciva a trovare varchi per il dialogo e a prospettare scenari per la pace.

Gino Leonardo Di Mitri 


Cristianità e Famiglia.

di Paolo Lopane

«Diritti dell'individuo, delle coppie, degli altri; sposarsi e stare insieme; regole e libertà; procreazioni e bambini»: questi gli impegnativi temi della conferenza organizzata il 9 maggio 2012 dal Movimento di Cultura Cristiana di Bitetto, che, in collaborazione con le Associazioni Movimento Famiglia e Vita di Matera ed Ex Alunni dell'Istituto Di Cagno Abbrescia di Bari, ha coinvolto i numerosi partecipanti in un fecondo dibattito animato da passione civile e, per le forti e complesse implicazioni sottese, ricco di motivi di riflessione.

Salutate dal Sindaco, dott. Stefano Occhiogrosso, e introdotte dalla puntuale presentazione del dott. Enrico Abbruzzese, presidente del locale Movimento di Cultura Cristiana, le relazioni del prof. Michele Costantino, ordinario di Diritto privato dell'Università di Bari, e di don Leo Santorsola, fondatore del Movimento Famiglia e Vita, hanno toccato, di fatto, corde profonde, affrontato questioni di scottante attualità che, sollevando dubbi ed interrogativi, hanno sollecitato, com'era prevedibile, aperti consensi ma anche perplessità ed osservazioni critiche. Di certo, le pacate parole di don Leo Santorsola, che ha trattato il tema della «Bellezza e criticità della famiglia», e gli appassionati e torrenziali interventi del prof. Costantino sulle idee di «famiglia», «coppia», «formazione sociale» e «società naturale» - interventi che il brillante moderatore della serata, il noto giornalista Gustavo Delgado, ha faticato non poco a contenere - non potevano lasciare indifferenti coloro che, consapevoli del vuoto valoriale e del precipizio morale che incombe, sono quotidianamente impegnati a combattere il pensiero unico e l'insipienza drammaticamente diffusa.

Come non ripensare alle parole di un filosofo come Nietzsche, che, pur schierato su posizioni anti-ecclesiali, sapeva ancora avvertire il significato sacrale della naturale unione fra l'Uomo e la Donna? Come non ripensare alle sue riflessioni sul matrimonio, sulla «volontà di creare in due quell'uno che è qualcosa di più dei due che lo crearono», giacché «anche l'amore vostro più nobile non è altro che un simbolo estatico, un doloroso ardore», una «fiaccola che deve illuminarvi verso sentieri più alti»? Ma il Solitario di Sils-Maria, l'uomo che alle soglie del secolo breve aveva alzato atterrito le braccia, aveva pure avvertito, presago, che «il Deserto avanza». Perché il Deserto avanza. Inesorabile. Basti confrontare quanto disposto dall'art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950 - dove si legge che «a partire dall'età minima per contrarre matrimonio, uomini e donne hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l'esercizio di tale diritto» - con quanto ha previsto l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, dove, venendo meno il riferimento a «uomini e donne», si afferma semplicemente che «il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio». Come stupirsi se la suprema Corte di Cassazione, pur negando, ai sensi della legislazione vigente, la trascrizione dell'atto di matrimonio di una coppia omosessuale sposatasi in Olanda, ha però recentemente avallato l'ambiguo pronunciamento della Corte Costituzionale che il 14 aprile 2010 (sent. n. 138), dopo aver confermato la costituzionalità della normativa civilistica che utilizza le parole «moglie» e «marito», ha tuttavia auspicato «nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri» della coppia formata da persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile?

Si badi: non è qui in discussione il sacrosanto diritto delle coppie di fatto di adire i giudici comuni per far valere, «in presenza di specifiche situazioni» (Cass. Sez. I, sent. n. 4184/2012), la pretesa «ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata» - si pensi, per fare un solo esempio, ai problemi connessi all'assistenza sanitaria e penitenziaria. Quello che, semplicemente, pavento è che la breccia progressivamente apertasi nell'ordinamento giuridico europeo, giustificata dall'esigenza di riconoscere pari dignità sociale alle mere convivenze di fatto, possa far crollare gli ultimi baluardi a difesa del valore della famiglia tradizionale, e, con esso, quel che resta del significato ultimo della complementare unione fra l'Uomo e la Donna, remota eco dell'unio mystica e della coniunctio oppositorum: sacrale e vivente simbolo che, in tempi di relativismo morale e di reificazione delle parvenze, può ancora additarci i nostri veri e oltremondani orizzonti, i nostri veri e sovratemporali destini.

Paolo Lopane

Stampata un'opera sul poeta armeno Hrand Nazariantz, morto a Bari 50 anni fa".

di Antonio Calisi

Per celebrare il grande scrittore, poeta e giornalista armeno, scomparso 50 anni fa a Bari, è stata pubblicata dalla casa editrice barese F.A.L. Vision, "Hrand Nazariantz, Fedele d'Amore", a cura di Paolo Lopane con introduzione di Bhogos Levon Zekiyan. Un'eccellente opera di approfondimento storica-culturale-etica sull'indimenticabile personalità carismatica di Hrand Nazariantz. Il volume racchiude lettere, poesie e fotografie completamente inedite.

Il prof. Paolo Lopane ha curato il testo a regola d'arte, dal punto di vista contenutistico, mettendo in relazione i diversi contributi di Cosama Cafueri, Rosalia Chiarappa, Carlo Coppola, Dorella Cianci e Paolo Lopane che hanno partecipato alla presentazione della vita e del pensiero di Hrand Nazariantz.

Elevata l'introduzione di Bhogos Levon Zekiyan, studioso armeno docente di Lingua e letteratura armena presso l'Università Ca' Foscari di Venezia.

L'opera, realizzata dall'editore F.A.L. Vision, è veramente pregevole. Eccellente anche la presentazione grafica del libro.

Hrand Nazariantz, nato a Uskudar, quartiere periferico di Costantinopoli, l'8 gennaio del 1886 muore a Bari il 25 gennaio 1962. Interessato ad assicurarsi il favore degli intellettuali europei alla causa armena, trova in Italia molti sostenitori, tra questi Giovanni Verga, Luigi Pirandello e Umberto Zanotti Bianco. Nel 1913 è obbligato ad abbandonare la sua patria a motivo della politica anti-armena dell'Impero Ottomano per rifugiarsi nel Consolato italiano di Costantinopoli dove sposò la cantante e ballerina di Casamassima (BA), Maddalena De Cosmis. Nella primavera dello stesso anno si reca profugo a Bari dove moltiplicò le relazioni sia con personalità della diaspora armena che con personaggi principali della cultura italiana, francese ed inglese, viaggiando anche all'estero per ragioni di studio. Nello stesso periodo fu assunto come docente di lingua francese e inglese presso l'Istituto Tecnico, Nautico e Professionale di Bari.

Antonio Calisi

25 Gennaio 2012 - Il Quotidiano Italiano-Bari

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